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Ci sono autori magari un po’ di nicchia, meno noti al grande pubblico appassionato di best-seller, ma caratterizzati, nella loro produzione, da un percorso originale e coerente. E che, avendo lavorato lungo l’arco di diversi

Ci sono autori magari un po’ di nicchia, meno noti al grande pubblico appassionato di best-seller, ma caratterizzati, nella loro produzione, da un percorso originale e coerente. E che, avendo lavorato lungo l’arco di diversi decenni, contribuiscono a configurare, attraverso la successione dei loro titoli, un capitolo degno delle storie letterarie. È questo il caso di Giuseppe Favati. Nato a Pisa nel 1927, fiorentino d’adozione, la sua carriera nel territorio del territorio della scrittura si è svolta tra poesia, narrativa e giornalismo. Segretario di redazione di Nuova Repubblica, quindicinale e poi settimanale di battaglia politica (1953-1957), fondatore e redattore, con Giuseppe Zagarrio, della rivista letteraria Quasi (1971-1984), è da diversi decenni caporedattore del mensile Il ponte, la rivista di politica, economia e cultura fondata subito dopo la guerra da Piero Calamandrei. Anzi, di questo importantissimo periodico della cultura italiana – che sopravvive tutt’oggi, pur tra le mille difficoltà finanziarie (conseguenza di una generale crisi delle ideologie e delle idee), sotto l’intelligente direzione dio Marcello Rossi – è un po’ l’anima storica. Tuttavia, come dicevamo, accanto al lavoro giornalistico e di organizzatore di cultura, Favati ha coltivato un percorso artistico di primo piano. Sia in ambito poetico, sia in campo narrativo. Per quanto riguarda la produzione in versi data al 1969 il suo esordio, con la raccolta Controbuio. Seguono Ip(p)ogrammi (1978), ahi la foresta di Compiègne (1988), Consumest (1993), Altr’aria per superstite (1995), Aria, Ariel (1998), Salita verso chiesa plebana (2005). C’è poi la narrativa, quantitativamente più misurata e anche più recente, con all’attivo tre romanzi: Villandorme e Cartacanta (2002), Per esempio, con la coda dell’occhio (2005) e , appena uscito, Mater certa. Viene ora facile allineare titoli e momenti salienti dell’itinerario letterario di Favati, grazie all’uscita di un volume collettivo che raccoglie alcuni saggi sulla sua figura e sulla sua opera: Ubbidire alla libertà. Sull’opera letteraria di Giuseppe Favati (Edizioni Polistampa), con interventi, tra gli altri, di Giuseppe Panella, Stefano Lanuzza, Ettore Mazzali, Mario Lunetta, Gualtiero De Santi. I giudizi e le valutazioni sui diversi momenti del lavoro letterario di Favati si incrociano, dialogano tra di loro, ma con la registrazione comune di alcune costanti, individuate quali tratti salienti: risentimento, passione civile, moralità intransigente, e, sul piano della scrittura, uno sperimentalismo accentuato che non rinuncia ai toni del grottesco, dell’assurdo e del paradosso. Si veda la sua poesia: «allergica al proprio io», come scrive bene Ernestina Pellegrini, «mai dissociata dai dettami dell’etica, che studia l’ostile mineralità della vita e la rende con brulla sincerità, senza condirla con droghe, senza ricorrere a inganni». Un espressionismo forte e plurilinguistico che consente di ascrivere Favati – come fa giustamente Leandro Piantini nel suo contributo – alla linea delle «tangenze gaddiane», una linea di scrittura che, per quanto riguarda la narrativa, è l’esatto opposto di quel romanzo main-stream e commerciale che fa la gioia degli editori per quanto riguarda i fatturati. Se ne ha conferma leggendo l’ultimo romanzo di Favati, Mater certa (Il Ponte Editore), in cui il lettore è condotto in una narrazione che procede per sbalzi e scossoni, al punto da chiedersi, ai primi capitoli, se per caso, più che di un romanzo, non si tratti di una raccolta di racconti sul cui frontespizio l’editore si sia sbagliato a far stampare, appunto, la parola «romanzo»: cambiano infatti le voci narranti, i punti di vista, le focalizzazioni, gli stili (c’è, a un certo punto, anche una sorta di saggio storico-scientifico con tanto di riferimenti bibliografici e note a piè di pagina). Poi, però, andando avanti si scoprono alcuni elementi di giuntura, anche se il testo non finisce comunque per tranquillizzare il lettore. Ma lo lascia in balia dei dubbi e delle domande che ha saputo suscitare. Come deve fare la buona letteratura. Quella, cioè, che non si accontenta di essere troppo facilmente consolatoria.
Data recensione: 07/01/2008
Testata Giornalistica: L’Unità
Autore: Roberto Carnero