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Con la morte di Giorgio Spini (Firenze 1916 – Firenze 2006), viene a mancare una delle figure più rappresentative della storiografia italiana formatesi tra la fine degli anni trenta e l’inizio degli anni quaranta. Di religione evangelica

Con la morte di Giorgio Spini (Firenze 1916 – Firenze 2006), viene a mancare una delle figure più rappresentative della storiografia italiana formatesi tra la fine degli anni trenta e l’inizio degli anni quaranta. Di religione evangelica, appartenente a quella generazione di studiosi nati tra il 1910 e il 1920 e comprendente tra gli altri, Paolo Alatri, Furio Diaz, Armando Saitta, Franco Venturi, Spini si forma a Firenze laureandosi nel 1937 con Niccolò Rodolico benché egli stesso riconosca come proprio maestro negli studi storici Gaetano Salvemini, all’epoca già espatriato negli Stati Uniti.Alla sua figura sono stati dedicati recentemente due convegni a Firenze, il primo, intitolato «L’attualità della ricerca storica di Giorgio Spini» tenuto il 5 maggio 2006, i cui atti sono stati pubblicati a cura del Circolo Rosselli col titolo«Per Giorgio Spini» con contributi di gaetano Arfè, Adriano Prosperi, Tiziano Bonazzi e Paolo Ricca e il secondo «Giorgio Spini storico della Resistenza e del protestantesimo italiano» tenuto dall’11 al 12 maggio 2007 comprendente interventi, tra gli altri, di Paolo Bagnoli, Emidio Campi, Salvatore Caponetto, Ariane Landuyt, Domenico Maselli, Guido Verrucci e Lucio Villari, i cui atti sono attesa si pubblicazione.Storico eminente dell’età moderna, Spini ha spaziato con le sue ricerche dal Principato mediceo di Cosimo agli albori del socialismo, comservando, sempre, un interesse centrale per la Riforma protestante in tutte le sue declinazioni, dal primo pionieristico studio del 1940 su Antonio Brucioli, l’umanista accusato dall’Inquisizione si luteranesimo per la sua traduzione della Bibbia fino all’ultimo libro, uscito postumo e incompleto, su «Italia di Mussolini e protestanti», ideale completamento della trilogia comprendente «Risorgimento e protestanti» del 1956 e «Italia liberale e protestanti» del 2002. È appena il caso di ricordare che Giorgio Spini ha lasciato un’impronta decisiva anche negli studi di storia americana di cui è stato uno dei primi cultori a livello accademico nel nostro paese e nel rinnovamento della manualistica storica con la sua «Storia dell’età moderna».Più conosciuto è il ruolo che Spini ha avuto nella lotta di Liberazione prima con il riconosciuto esercito italiano, poi come ufficiale di collegamento con l’Ottava Armata britannica che risaliva la penisola. Spini è stato il primo ufficiale dell’esercito italiano ad attraversare l’Arno. Per queste ragioni la città di Firenze ha ritenuto giusto concedere a Spini il Fiorino d’Oro nel 2004; questa parte della sua vita può essere ripercorsa nel volume autobiografico scritto con il figlio Valdo nel 2002 «La strada della Liberazione: dalla scoperta di Calvino al fronte dell’VIII Armata».A fianco di questa incessante attività scientifica (la bibliografia degli scritti di Spini fino al 1997 – pubblicata in appendice al volume «Tradizione protestante e ricerca storica. L’impegno intellettuale di Giorgio Spini» in cui sono pubblicati gli atti  della giornata di studio tenutasi l’8 novembre 1996 a Torino in occasione degli ottanta anni dello studioso – comprende quasi novecento titoli, (questo mentre una nuova edizione aggiornata è in preparazione presso l’editore Olschki a cura di Stefano Galgano, Aldo Landi, Rita Mazzei e Carla Sodini), esiste un Giorgio Spini meno noto ma non per questo meno importante; è lo storico che si fa militante, impegnato in prima persona in un’atività pubblicistica particolarmente intensa per gli anni che vanno dalla fine della guerra all’inizio degli anni sessanta.Dopo la fine della guerra, quando le speranze che il paese potesse rigenerasi spiritualmente erano ancora ben presenti nelle menti e nei cuori di coloro che avevano combattuto la tirannide nazifascista, anche Spini non si sottrae al dovere morale prima che civile di offrire il proprio contributo alla ricostruzione di un paese in ginocchio; lo farà attraverso una serie di contributi giornalistici animati da grande forza morale e profonda ispirazione religiosa per la prima volta raccolti in questo libro a cura di Mirco Bianchi. Questi scritti, apparsi originariamente tra il 1945 e il 1961, sulle pagine del «Non Mollare», organo della federazione regionale del Partito d’Azione, di «Nuova Repubblica», organo del movimento di Unità Popolare e de «Il Ponte» rappresentano il ritratto fedele dell’uomo di cultura, dell’evangelico, del resistente, del militante politico.Giorgio Spini, che aveva aderito in clandestinità al Partito d’Azione dopo essere passato attraverso l’esperienza liberalsocialista, affronta in questi articoli numerosi argomenti che riguardano la stringente attualità, soffermandosi in particolare sulla rapida evoluzione del quadro politico interno sui rapporti tra Stato e Chiesa.Il libro «Lo storico e la politica», pubblicato a cura dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana di cui Spini era stato negli anni cinquanta uno dei fondatori, si avvale di una prefazione del direttore dell’ISRT, Ivano Torrigiani, di una introduzione del suo presidente Paolo Bagnoli, nonché di uno scritto di Sandro Rogari di cui viene ripubblicata la commemorazione letta in occasione delle esequie di Spini alla Chiesa valdese di Firenze.Gli argomenti trattati dagli articoli raccolti nel presente volume sono molti e di grande interesse: ad esempio, la natura del Partito d’Azione, che Spini rintraccia nella sua forza morale; alla vigilia delle elezioni per la Costituente egli afferma che «è stato grazie a questa intransigente disciplina morale, a questa linearità senza compromessi della nostra condotta, a questa selezione che abbiamo operato tra i nostri iscritti che possiamo oggi vantarci – non per vana iattanza, per ammissione dei nostri avversari medesimi – di avere nelle nostre file il fiore della intelligenza e della cultura italiana antifascista» (p. 63) per poi proseguire dicendosi convinto che come già in Inghilterra e in Francia anche l’Italia si avvierà, seppure con ritardo, sulla «strada del nuovo socialismo occidentale: la conciliazione del socialismo con l’esigenza morale della libertà. E questa strada nuova, in Italia, oggi, si chiama Partito d’Azione» (p. 65).Ancora sulla politica del Partito d’Azione è da segnalare il commento di Spini ai risultati delle elezioni amministrative del marzo 1946, laddove, equivocando sul successo fatto registrare dal Pd’A nei piccoli centri, particolarmente nel Mezzogiorno, ricava l’impressione che il Partito d’Azione sia riuscito ad intercettare la rappresentanza degli interessi delle classi popolari e delle zone più arretrate del paese, considerando un errore, sulla scorta di questo risultato, la decisione della destra del partito che aveva proceduto ad una scissione nel corso del primo congresso con l’intenzione di orientare l’attenzione del Pd’A verso le classi medie.Anche in relazione alla scelta del modello istituzionale, Spini vede nella «rivoluzione  democratica» del Partito d’Azione la chiave per leggere il futuro dell’auspicata repubblica che sta per sorgere: escluso ogni altro tipo di repubblica, da quella marxista dei socialcomunisti alla temuta repubblica clericale frutto della vittoria democristiana, Spini sembra convinto che il Pd’A possa orientare in modo decisivo le sorti del sistema politico italiano, il partito – per usare le sue parole –  «numericamente meno forte, ma politicamente più maturo e più cosciente» (p. 81). Una volta superato il terrore ispirato nelle classi medie dallo spettro del comunismo con una vittoria della DC, si poteva pensare più liberamente a creare quei presupposti di solidarietà e di giustizia sociale capaci di sollevare dall’oppressione capitalistica le classi lavoratrici. È a questo punto che si sarebbe potuto aprire per i Partito d’Azione uno spazio di manovra impensabile prima; dopo avere assistito alla ricollocazione dei piccoli partiti di democrazia laica e del partito socialista all’interno del mutato sistema politico italiano si sarebbe aperta la questione del futuro del Pd’A: se le forze politiche come il PSI e il PRI avessero raccolto la sfida che si presentava loro «il partito d’Azione potrebbe lietamente trasfondere in questo nuovo e più largo complesso le proprie energie, sicuro di non aver tradito la propria bandiera» (p. 83).All’indomani dei risultati delle elezioni politiche del giugno 1946, Spini ribadisce che  compito del Pd’A sarà di vigilare affinché il secondo governo De Gasperi (DC-PCI-PSIUP-PRI) getti le basi per le riforme necessarie (riforma agraria, nazionalizzazione della grande industria, eliminazione della legislazione autarchica, riforma tributaria); egli considera questi elementi come il «programma minimo» per consentire all’Italia di ripartire su nuove basi, ma pochi giorni dopo sul «Non Mollare» è costretto a prendere posizione contro la politica economica del nuovo governo: essa infatti viene a essere sempre più schiacciata tra le pressioni opposte del ministro del Tesoro, Corbino, che privilegia la lotta all’inflazione attraverso il contenimento della spesa pubblica e la stretta sui salari per rilanciare gli investimenti e favorire la stabilità monetaria e le indicazioni provenienti dagli ambienti democristiani più attinente agli interessi della piccola e media impresa e non ostili  a provvedimenti di stampo keynesiano con l’aumento della pressione fiscale per la soluzione dei problemi del Mezzogiorno.Un altro argomento ricorrente nelle pagine del libro sono i rapporti dello Stato italiano con il Vaticano. La polemica si apre nell’ottobre del 1946 con un articolo ceh Spini dedica alle manovre del Vaticano per rinfocolare i nazionalismi nelle nazioni uscite sconfitte dalla Seconda guerra mondiale, l’Italia, la Germania e l’Austria. Spini accusa le gerarchie cattoliche di soffiare sul fuoco di un nuovo revanscismo cui sarebbe stato possibile opporsi con il perseguimento dell’unità europea attraverso la quale si sarebbe anche ottenuto il risultato di eliminare gran parte delle ingerenze vaticane nella vita politica, infatti – si chiede Spini – «come potrebbero fare gli Stati Uniti di Europa a dichiarare religione dello stato il cattolicesimo, quando metà almeno dei suoi cittadini risulterebbe appartenere a confessioni cristiane non cattoliche? Come potrebbe fare più il Vaticano a stipulare un concordato con uno stato così multiforme dal punto di vista religioso?» (p. 119).Nel commentare l’approvazione dell’art. 7 della Costituzione, Spini punta il dito contro la presunta volontà di pacificazione di Togliatti e la sua apertura, nei fatti, ad una deriva reazionaria e clericofascista sostenendo che una politica improntata al realismo non può e non deve cedere sui principi, quegli stessi principi per i quali era stato versato il sangue dei comunisti nella Resistenza.Nel novembre 1948, commentando sulle pagine de «Il Ponte» la politica concordataria, Spini, conclude il suo scritto con queste parole: «Il problema centrale della politica italiana è oggi un problema religioso. La religione liberale, nei suoi termini tradizionali, è morta ed il più generoso dei tentativi di farla rivivere, quello dei liberalsocialisti, ha bene dimostrato questo nel suo esito. La religione del socialismo umanitario, nei termini di Turati o di Prampolini, non è meno morta. La crisi è crisi politica, è crisi di fermento religioso, è asfissia interiore, mancanza di quell’entusiasmo morale che solo consente di fare cose grandi ed eterne» (pp. 173-174).Negli anni a venire, gli interventi su succedono sulle pagine de «Il Ponte» e di «Nuova Repubblica» seguendo l’itinerario politico di Spini, che, alla scomparsa del Pd’A dal panorama politico italiano, aveva intrapreso un accidentato percorso tra le formazioni minori della sinistra non comunista in cui si era dispersa una buona parte della diaspora azionista. Gli articoli dedicati alla politica italiana sono spesso coraggiose prese di posizione a favore di battaglie di libertà condivise anche dal gruppo di collaboratori de «Il Mondo» e in primo luogo  Ernesto Rossi, come la difesa delle libertà civili e dei diritti delle minoranze religiose, la battaglia per una scuola pubblica e laica, la lotta contro gli sprechi e gli affarismi sottogovernativi dell’industria di stato e dei grandi gruppi privati (pp. 248-251 e 252-254). Nel commosso ricordo che Spini traccia di Salvemini all’indomani della sua scomparsa si intreccia al rimpianto per la perdita del grande studioso il dolore per il vuoto che questi lascia con il tratto essenziale della sua personalità ossia «la sua profonda fede morale»; per Spini, Salvemini, lungi dall’essere un discepolo di qualche prestigioso maestro, è anzitutto «un credente in un suo incrollabile credo interiore, che lo accompagnò in ogni fase della sua evoluzione intellettuale e della sua operosità politica e culturale» (p. 290).
Data recensione: 01/01/2007
Testata Giornalistica: Rassegna storica toscana
Autore: Andrea Becherucci