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Il libro che dette fama a Don Milani fu «Lettera a una professoressa», in cui il priore di Barbiana predicava un’utopica scuola (nemmeno tanto, visto l’andazzo preso, poi, dalla nostra

Il libro che dette fama a Don Milani fu «Lettera a una professoressa», in cui il priore di Barbiana predicava un’utopica scuola (nemmeno tanto, visto l’andazzo preso, poi, dalla nostra scuola) senza registri, senza voti, che vendicasse la «classe proletaria». Quella lettera, tra l’altro, minacciava di «mandare in Siberia» quei professori che avessero storto la bocca e avessero sentito nostalgia del latino e che, quindi, «amavano i signorini della vecchia scuola media» che «hanno la cultura come privilegio di pochi». E non è nulla se andiamo avanti nella lettura allorché Don Lorenzo afferma che «La Chiesa cattolica (...) ha le mani insanguinate» per cui le sue strutture “devono essere spazzate per il bene dell’umanità”. E a spazzare quelle strutture ci pensò non tanto il Concilio Vaticano II quanto una certa falsa lettura che alcuni vollero dare di quell’evento della Chiesa. Il prete «padre nobile del Sessantotto» fece togliere, per prima cosa, il crocifisso dalla scuola parrocchiale di Calenzano (anticipando di oltre quarant’anni il musulmano Abel Smith) rivendicando la sua assoluta libertà di fronte a ogni autorità ecclesiastica (ricordiamo l’indegno processo fatto pubblicamente a monsignor Giovanni Bianchi, vescovo coadiutore, colui che insieme al cardinale Ermenegildo Florit, fu costretto da Don Milani, padre Balducci, don Mazzi e i preti contestatori del ’68, a portare, come il Signore, la pesante croce!). «Io a scuola - scriveva don Milani - sputtano tutto quello che mi passa per il capo (...) posso benissimo permettermi di dire tutte le cose più sporche ed eretiche». Si capisce il perché la «Lettera» divenne il manifesto degli studenti e dei docenti di allora che trasformarono la scuola in quella che avemmo e abbiamo tuttavia sotto gli occhi: il piffero che sostituì la lingua latina, l’abolizione del voto e della serietà negli esami, insomma l’abolizione della meritocrazia. Certo oggi si vorrebbe tornare indietro e dimenticare quella lettera, tanto che, l’altro ieri, al termine della «commemorazione» di don Milani un relatore, il professor Santoni Rugiu ebbe a dire: «Meglio sarebbe se quella “Lettera a una professoressa”, fonte di molti equivoci, non fosse stata mai scritta» (Cfr: Giovanni Spinoso nella telecronaca del TG3 Regione del 12 maggio 2007 ore 20,30). Don Milani fu il precursore, il «padre nobile» del cattocomunismo, ce lo ricordano in un interessante e documentato libro due dirigenti del Pci d’allora, Luigi Tassinari e il già citato Siro Cocchi: «Valeva la pena - Ricordi di vita Politica», un volume che porta la significativa prefazione di Paul Ginsborg (Ed. Polistampa - Firenze 1999). Si legge nel libro della nascita a Borgo San Lorenzo di un circolo progressista di cultura con «Gigi Tassinari» preside dell’avviamento, Marco Ramat che reggeva la pretura, la professoressa Parigi, la preside Setti della scuola media e due sacerdoti don G... e don Milani.Fu un momento di grande vivacità culturale (...) vennero Codignola, Lombardo Radice e fu lì che si svolse il grande scontro in seguito all’intervento di don Milani, quando affermò che «al figlio del contadino di Gattaia o di Vicchio, anche se non sapeva niente, si sarebbe dovuto assicurargli il dieci, mentre per il figlio del marchese Frescobaldi, si sarebbe dovuto partire dal cinque. Queste iniziative agirono anche in modo estremamente positivo sullo sviluppo culturale e politico dei militanti del Pci (...) insieme organizzammo incontri e convegni, piccoli festival e coinvolgendo il pretore Ramat (fondatore di «Magistratura Democratica») e (...) don Lorenzo (Milani), già nel suo oneroso esilio di Barbiana. (Op. cit. pag. 18)». «Comincia allora - continuano Tassinari e Cocchi - (e Firenze è un punto di riferimento fondamentale) un approccio più articolato e consapevole del Pci nei confronti del mondo cattolico (...) Basti ricordare le posizioni dell’attuale vescovo di Firenze Piovanelli (l’arcivescovo, firmatario, di un “manifesto” contro il cardinale Florit, era in carica quando fu scritto il libro, nel ’99, ndr), di don Milani, di don Mazzi, di padre Balducci, tutti questi furono vicini (...) a posizioni di rinnovamento nel mondo della Chiesa ed ebbero in monsignor Bartoletti il prestigioso segretario della Cei, un grande ispiratore della nostra regione, scomparso prematuramente in odore di Tiara (sic!)» (pag. 93). Ma la «Lettera» fu letteralmente «fatta a pezzi» da due personaggi illustri del mondo della scuola, la professoressa Rita Calderini, insigne latinista distintasi per la sua battaglia in favore della scuola seria, nel Cnadsi (Comitato nazionale associazione difesa scuola italiana) e dal preside, professor Roberto Berardi che pubblicò un aureo librettino: «Lettera a una professoressa: un mito degli anni Sessanta» (Shakespeare and Company, 1992). Scrive Berardi: «La “Lettera” contribuì, con altre forze disgregatrici ad abbassare il livello della scuola dell’obbligo a danno dei ceti più indifesi (...) la responsabilità prima fu dell’autore, che sotto l’apparenza di un discorso che riguardava la scuola e gli alunni dei ceti più diseredati, non solo diffuse informazioni infondate e giudizi ingiusti, masi propose scopi ben più ideologici che scolastici... crearono confusione, mescolando ideologia e tecnica didattica, ideologia e formazione dell’uomo», per cui quel documento è oggi solo «un documento marginale della lotta di classe del suo tempo». Mi sbaglio o sono le stesse cose alle quali accennava il professor Santoni Rugiu a Firenze?
Data recensione: 02/07/2007
Testata Giornalistica: L’Occidentale
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