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Erano gli anni ’70. era la Firenze di San Frediano. Anzi, del Pignone. Un quartiere strano. Non lo sa quasi nessuno, ma il Pignone era il porto di Firenze. Porto di scalo, sull’Arno. Quindi, quelli

Erano gli anni ’70. era la Firenze di San Frediano. Anzi, del Pignone. Un quartiere strano. Non lo sa quasi nessuno, ma il Pignone era il porto di Firenze. Porto di scalo, sull’Arno. Quindi, quelli del Pignone – tra l’odierno Ponte alla Vittoria e Porta San Frediano – erano portuali. Diventarono operai della officina Pignone, prima che si spostasse a Rifredi. Poi contadini, piccoli commercianti, artigiani. Ma torniamo agli anni ’70. C’era un cinema. Si chiamava Universale. E se non l’hai visto, non puoi capire. Si vedevano film, sì. Ma come attraverso un velo, una cortina grigiastra. Una cortina di fumo: di sigaretta, e non soltanto. Le immagini dello schermo ti arrivavano attutite, riflessi di un sogno lontano. Ma quello che perdevi in immagine, lo guadagnavi in vita, in brusio, in esplosioni di adrenalina. Perché i film, all’Universale di via Pisana, era come se nascessero lì, per la prima volta. Apparivano le immagini: e il pubblico urlava come allo stadio. Per dare la sua approvazione a un protagonista che sapeva come si vive. O per urlare e coprire di vergogna uno maldestro, impacciato, antipatico o un’attrice che non ci stava. All’Universale il cinema suscitava fenomeni di tifo. Ed era come se il pubblico reinventasse la storia del cinema, applaudendo e fischiando, uccidendo certi film e portandone altri al trionfo. Le tre ore del concerto di Woodstock, viste all’Universale,erano un’altra cosa. Quel concerto mitico, un milione di persone sull’erba e decine di miti del rock a cantare, riviveva sullo schermo dell’Universale. L’Universale rendeva il cinema un fenomeno live. E capitava che, durante “Woodstock”, dopo gli applausi a scena aperta per Joe Cocker negli spasmi di With a Little Help from My Friend, quell’educanda di Joan Baez, con la sua chitarrina e le sue trecce da messicana, non la facessero proprio cantare! Glielo impedivano a forza di urla. E giuro di aver visto Joan Baez che, lì sullo schermo, si alzava mortificata e se ne andava via dal film. In quell’angolo di Firenze, in quel quartiere a trecento metri dal centro, accadeva un miracolo. Il cinema ridiventava come nei primi anni della storia del cinema, ridiventava spettacolo popolare, prendeva vita, tra le urla e gli entusiasmi, l’ironia, la demolizione di ogni mito, l’esaltazione di altri. John Beluschi, i Blues Brothers, signori e padroni di almeno una proiezione al mese; e poi Dustin Hoffman, “Easy Rider”, “Apolicalypse Now”, “The Wall”. Si imparavano a memoria i titoli. Questi erano i re dell’Universale. Una sala che rifaceva, a modo suo, tutta la storia del cinema. Perché ad essere proiettati erano i film scelti dagli spettatori. Era una Firenze povera, quella che passava di lì. Perché il biglietto costava poco o niente: niente per chi entrava con la complicità della maschera. Così, l’Universale si affollava di studenti senza soldi, di lavoratori, operai, meccanici, gente che passava dal bar di fronte alla sala. Gente che portava dentro, tra quelle sedie di legno, tutta la vita della città. Tutta la rabbia, la forza, i vicoli ciechi in cui finiva la gente, in quegli anni. Poi il brusco risveglio, il terrorismo, gli anni di piombo, la normalizzazione. Tutto diventa più “pulito”. E anche l’Universale annaspa, fatica a respirare, sparisce. Al suo posto, un locale alla moda. Anche quello tra poco se ne andrà. Di ragazzi di allora sono rimasti i ricordi. E le vite, che sono proseguite, ognuna in una sua direzione. C’è chi è passato dalle comunità di recupero, e poi però ha trovato un suo equilibrio. Chi non ce l’ha fatta, e l’hanno trovato una notte o un mattino come nessuno avrebbe voluto. C’è chi è diventato un cantante famoso, e i primi film li ha visti lì, all’Universale. Come Piero Pelù. C’è chi è diventato un attore famoso, come Leonardo Pieraccioni, nutrito di serate all’Universale. C’è chi non è diventato niente, e va bene lo stesso. E ricorda quei giorni con uno strano affetto, come se davvero – in mezzo alle grida e alle birre gettate sullo schermo – quei giorni avessero voluto dire qualcosa. È una storia fatta di gente. Di facce. Di protagonisti anonimi. La nostra città è anche questo. Ha provato a raccoglierla, questa storia, un ragazzo di lì, di Pignone. Matteo Poggi. Che ci ha scritto sopra un libro. Un libro frammentario e non potrebbe essere che così. Tante piccole favole. Come quella di quando uno entrò con una Vespa in mezzo alla sala. E si piazza lì, sotto lo schermo, trionfante, a farsi applaudire, prima di ripartire, cavaliere orgoglioso, don Chisciotte a gas. Ma questa storia è persino troppo famosa per raccontarla. Meglio scoprire tutte le altre. Che sono storie di vita piccola. Il film di tutta quella gente dall’altre parte dello schermo. Il libro si chiama Breve storia del cinema Universale. Che non è il cinema di tutto l’universo: è solo il cinema di un angolino del mondo. Adesso questa storia sta per ridiventare film. Un altro ragazzo di Firenze, Federico Micali, autore di diversi documentari, vuole riportare in immagini questa storia che non ha più immagini. Già, perché chi è che ha fotografato, che ha filmato quello che entrava al cinema con la Vespa? Non c’erano mica i videofonini allora. E chi ha filmato le fecce dei ragazzi che si chiamavano a voce altissima nel buio, “Ugo? ’ndo tu sei? Ugo!!! Ugoooo!”, “E son qui! icché tu voi, fava?”, e nessuno che chiedesse di fare silenzio.
Data recensione: 15/04/2007
Testata Giornalistica: La Nazione
Autore: Giovanni Bogani