Per introdurre questo volumetto di poesie di Massimo Corsinovi vorremmo partire dalla gouache di René Magritte riprodotta in copertina che porta
Per introdurre questo volumetto di
poesie di Massimo Corsinovi vorremmo
partire dalla gouache di René
Magritte riprodotta in copertina che porta
il titolo L’entrée en scène, perché ci
immette nel cuore dell’opera del pittore
belga: la figura è quella di una colomba
che vola in un’ora incerta della notte. La
vediamo sospesa sul mare increspato al
centro di un cielo stellato. Non sappiamo
se stia innalzandosi con un colpo d’ali o
se stia abbassandosi sulle acque. La difficoltà di chi osserva il quadro viene ulteriormente
acuita dal fatto che il corpo
della colomba è fatto di nuvole ritratte
di giorno. Così d’improvviso l’immagine
di cui credevamo d’aver inteso il senso si
sottrae a una lettura immediata e quel
che stimavamo d’aver colto ci sfugge, si
è spostato altrove. Ma dove, e di che si
tratta? È come se Magritte volesse dirci
che il linguaggio, in questo caso pittorico,
incontra un limite nel descrivere il significato
ultimo della realtà che infine rimane
ineffabile.
Scorrendo le pagine di questo libro di
poesie di Massimo Corsinovi ci imbattiamo
in parole familiari come giardino,
sole, mare, rondini, nebbia, ombra, sogni,
e si potrebbe continuare. Corsinovi le libera dalla loro funzione quotidiana e
nel modo, poi, in cui le dispone (c’è
un’attenzione formale anche alla pagina)
le sottrae al loro uso strumentale.
L’accostamento che ne fa produce un
effetto particolare e straniante: affrancate
dalla loro ineluttabile usura esse ci
vengono restituite in una nuova veste
semantica.
Nella partecipata e puntuale prefazione
Fausto Sbaffoni richiama proprio
la capacità dell’autore «di dare vigore e
contenuto alla parola, anche alla parola
svilita e abusata». Ma, aggiungiamo,
una volta ripristinata la loro espressività
le parole ci appaiono, per paradosso,
insufficienti a rivelare, in certa misura,
le cose come se il linguaggio fosse
impossibilitato a nominare il reale che si
sottrae, in ultima istanza, a ogni piena
enunciazione o fissità concettuale. O
come se non fossimo noi più abilitati a
intercettarne il senso.
Nel tentativo di interpretare questi
versi dunque, che paiono semplici, di
facile lettura, possiamo cominciare dal
titolo dato al testo: Ali di luna. È l’inizio
di una poesia che ritroviamo all’interno:
«Ali di luna | discendono la notte | in
lento volo. | Fino a posarsi | oltre il silenzio
bianche | sull’anima».
Espressione di spiritualità, slancio
sovrannaturale le ali, nel nostro caso,
sono quelle dell’astro che non vive di
luce propria ma riflessa: l’esperienza da
parte dell’anima del chiarore può essere
unicamente indiretta. Appartiene alla
natura la possibilità d’essere travolta,
senza conseguenze, dalla luce immediata:
«Il sole inonda | – puro ostensorio
d’oro – | boschi d’aranci». All’uomo è riservata
invece una luminosità più tenue,
per alcuni versi più incerta, mutevole,
che cambia forma, che si dilegua
perfino per poi ricomparire a illuminare
la notte: «È luna piena. | Bianche conchiglie
| le case del paese». Il suo profi-
larsi è costante, pervade le persone e le
cose, ma sul rilievo da attribuire a questo
particolare corpo celeste, potremmo
solo avanzare letture incerte. Perché i
corpi trasfigurati dal suo apparire se da
un lato sono connotati da un forte timbro
simbolico, dall’altro sembrano negare
ogni astrazione e trovano il loro ancoraggio
nella peculiare concretezza della
vita. Per Corsinovi allora la luna del
titolo, prima di ogni valore speculativo,
è il richiamo alla effettività della notte che diventa lo sfondo prevalente da cui
fa emergere, perlopiù, i suoi quadretti
familiari.
Ma la notte per Charles Péguy, uno
dei maggiori poeti di area cattolica francese,
autore di un’ampia opera lirica a
carattere religioso, la cui vita è stata improntata
da un afflato mistico, è una
sola, quella che scese sul monte Golgota.
Quella notte, esclusiva per il credente (e
Corsinovi lo è) quanto il giorno della
Resurrezione, si ripete ogni notte e celebra,
scrive Péguy, ne Il mistero dei santi
innocenti, la liturgia della Passione:
«Notte su quel monte e in quella vallata…
Notte io ti vedo ancora… Tre o
quattro donne che piangevano lì in piedi.
Degli uomini non mi ricordo, credo
che non ce ne fossero più. Avevano forse
trovato che si saliva troppo. Tutto era
finito… È allora, o notte, che tu venisti.
O notte la stessa. La stessa che vieni tutte
le sere».
Per questo le parole di Péguy ci paiono
appropriate per leggere questi versi la
cui notte è già contenuta nel titolo. La
sua presenza è ricorrente, in ogni caso è
imminente, all’imbrunire, la sua comparsa
a incominciare dall’incipit: «De-
flagra di silenzi | la sera mentre tutto | di
luna s’infiora», e punteggia pressoché
tutto il testo: «Vide il bambino | tingersi
a sera i peschi | di luna e stelle», «Alberi
rossi | di sole nel giardino. | Le prime
stelle», «Altre stelle | oltre i rami del
pesco. | Fiorisce la sera». Fino ai versi
ungarettiani: «Cade una foglia. | Senza
rumore scende | lieve la sera», (di “Ungaretti
rivisitato” ha scritto Luzi). Per fi-
nire con l’attacco dell’ultima poesia che
chiude il libro: «Veglierò tutta la notte |
ascoltando l’orizzonte». Ed ecco financo
il mattino intriso ancora di buio: «Un
gallo canta. | Tarda ancora a spuntare |
la luce dentro».
Pur senza mai trovare citato il Golgota
non possiamo, secondo questa lettura,
non avvertirne la presenza sullo sfondo,
magari nei ricorrenti interstizi tra grafia
e spazi bianchi. D’altro canto Mario Luzi
nella nota introduttiva al testo, prima
della sua scomparsa, ci ha affidato una
brevissima e perfetta definizione: “Quando
penso a Massimo Corsinovi e a ciò
che scrive l’immagine che mi viene in
mente è quella dell’Agnus”.
All’elemento notturno dunque è dato
un evidente rilievo. Il paesaggio crepuscolare,
serale ci immette nello spazio della luna, ma seguendo questa via sul
Golgota è già segnato il presagio della
salvezza: «Sbiancano i rami | del pero
nel mattino», «Parco d’inverno. | Scorgo
sui peschi spogli | lampi di fiori». Ed ecco
la rinascita, la vita che Corsinovi ci descrive
e rivela in tutta la sua misura. La
venuta al mondo del primo figlio Andrea:
«Ora il tempo si compie | dell’attesa
nel tuo | grido che si fa canto. | Fiorisce
dal tuo sangue | di nostro figlio in
luce | limpido il volto». O quella di Chiara,
la secondogenita: «Dal grembo della
madre | fiorisce il primo pianto | offrendosi
al mattino. | All’ombra del castello |
ali d’olivo cullano | mia figlia in boccio».
Perché l’autore di questo ci rende partecipi,
del proprio orizzonte con un candore
che ci induce al silenzio. Gli intertitoli
redatti in prima persona, con i nomi
dei propri familiari, accentuano questo
valore di diario intimo. Ci espone un percorso,
ci fornisce una testimonianza, la
sua. In una realtà mediata, ci propone
l’immediatezza del suo itinerario, segnato
anche dalla sofferenza. La scomparsa
del padre (il sacrificio vorremmo dire)
ci appare come un momento probabilmente
fondante, certamente sostanziale,
di questo percorso meditativo, a cui
segue la descrizione della solitudine eroica
della madre. La passeggiata, forse
l’ultima, della nonna Anna. Cogliamo,
poi, in un movimento minimo degli occhi
il pudore della moglie. Ci rappresenta la schietta allegria dei figli, ma anche i loro
iniziali smarrimenti, le loro prime trepidazioni
e le strategie messe in atto per arginare
il sentimento della perdita, l’inquietudine
per ciò che, d’un tratto, può
svanire: «I miei figli disegnano | farfalle
sulla sabbia | liscia del bagnasciuga. |
Prima che giunga il mare | i loro occhi le
fanno | d’improvviso volare».
Tutto questo si compie in un’atmosfera
rarefatta, sottile, leggera. Gli oggetti
sono solo accennati con un vocabolario
pulito, levigato, sfrondato del
superfluo come se la parola fosse, come
abbiamo detto, inadeguata ad afferrarli
e nominarli. I familiari ci vengono presentati
con riservatezza e discrezione,
sempre con una scrittura raffinata, ma
senza preziosismi ed essenziale. Vi è in
questa cifra stilistica come la resa da
parte del linguaggio davanti a ciò che
abbiamo chiamato l’ineffabile. La parola
non può enunciare l’inesprimibile:
come la luna essa manda tenui bagliori
e in quei riflessi possiamo cogliere illuminati
a tratti un oggetto, un volto, una
storia. È una parola che tende all’eclisse,
che potendo scomparirebbe dietro
l’oggetto nominato e che tuttavia sa di
non poter abbandonare il campo, di non
poter abdicare, come ha acutamente
scritto ancora Luzi nella prefazione de Il
cacciatore cieco del ’92, che al riguardo
registra come l’autore non può “convertire
in altro” la sua vocazione poetica.
Ma Corsinovi, pur senza rinunciare a
comporre, con la sobrietà, la snellezza e
il nitore del suo vocabolario sembra però
voler depotenziare il peso soverchiante
che si dà alla scrittura, per ritornare alla
sostanza della parola. Una parola beninteso
calibrata, soppesata, vorremmo
dire non obesa, appesantita come quella
d’uso quotidiano, ma ancora integra,
innocente: “Andate a imparare | a disimparare”,
ha lasciato scritto Péguy. E
Corsinovi attento a non gravare la pagina,
a volte la lascia vuota. Il testo è inscritto
in una cornice bianca, come fosse
una cornice di quiete, in quello spazio
possiamo rintracciare il silenzio della
parola.
Data recensione: 01/09/2006
Testata Giornalistica: Caffè Michelangiolo
Autore: Antonio Imbò