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Nel giugno del 2005 si è aggiunta fra le pubblicazioni italiane, a segnare un’altra tappa della positiva valutazione critica che la figura merita, una piccola raccolta di poesie, con testo a fronte, della poetessa russa Marina Cvetaeva (1892-1941). Si tratta, in verità, di un libro costruito come “dialogo nel tempo” fra Marina Cvetaeva e un altro poeta russo, Arsenij Tarkoskij (1907-1989), accostati insieme per la condivisione - che nel secondo vorrebbe perpetuarsi come prezioso lascito oltre la morte della prima - dei grandi poli tematici del sonno e del sogno, della vita e dell’amore.
Il titolo della raccolta (a cura di Irina Dvizova e Emiliano Panconesi per le Edizioni Polistampa) richiama esplicitamente tale base tematica: Sonno e vita sogni e amore. Fra i due poeti antologizzati si ha netta tuttavia l’impressione che ad emergere, proprio per la maggiore pregnanza delle diadi cennate, sia appunto la Cvetaeva, mentre di minor rilievo, più sfocata appare la figura di Arsenij Tarkovskij (padre di Andrei, il noto regista cinematografico); il quale ricalca, sì, vari contenuti della poesia cvetaeviana, senza però riecheggiarne apprezzabilmente, ad avviso dello scrivente, l’incandescenza espressiva, risultando le sue liriche un po’ agiografiche nei riguardi della Cvetaeva, o comunque piuttosto segnate da una certa retorica memoriale. Fa eccezione il testo di p. 67 (Il bucato), dove l’omaggio alla memoria non si atteggia a compito retorico ma è ricordo spontaneo (Marina lava i panni. Superba. / Le sue mani use al lavoro / schizzano la schiuma spumeggiante / sulla spoglia parete) e la figura di Marina si staglia, nitida e semplice come in un flash di sapore neorealista, nei tratti duri dell’abbrutimento esistenziale che caratterizzò l’ultimo periodo della sua vita. Vi è poi la poesia di p. 81, senza titolo, in cui il tema del sogno, che nelle liriche della Cvetaeva grida in termini decisamente personalistici (ma, si vedrà, in evidente consonanza con la nuova sensibilità della cultura europea sull’inconscio e sull’interpretazione dei sogni), viene spinto fino ai limiti di una visionarietà astratta e ieratica, di tono profetico, che fa un opaco appello ad una condivisione collettiva della visione sognata (E questo sognavo, e questo sogno, / e questo una volta ancora sognerò. / E si ripeterà tutto, e tutto sarà reincarnato, / e voi sognerete tutto ciò che in sogno ho visto).
Ma appunto sul sonno-sogno, un testo in particolare (Insonnia, a p. 75) lascia un’impressione negativa che un po’ obnubila altre possibili, più sfumate impressioni annotabili a margine delle poesie tarkovskijane: in constatazioni sentenziose come quelle finali di questa poesia (È impossibile / l’acqua nel mastello, senza aver dormito / pestare. // Impossibile prendere sonno: / è così angosciosa la notte, data a noi per riposo), dov’è più lo stato insonne quale rapimento e sovreccitazione , quale sogno ad occhi aperti, elementi così presenti in Marina Cvetaeva?
Di Tarkovskij, semmai, appare notevole la citazione riportata dai curatori ad esergo dell’Introduzione: La poesia è meno di tutto letteratura; è il modo di vivere e di morire, è una cosa molto seria, con essa non si scherza, poichè sa anche uccidere, come ha ucciso Lermontov, Cvetaeva e tanti altri. È un’intuizione che, in generale, mette bene in evidenza la specificità antropologica della poesia, quale esperienza umana che può raggiungere livelli di profondità tali da sfuggire, per essere intesi, finanche all’ambito semantico più proprio della poesia stessa, quello della letteratura. Ma al contempo è intuizione che coglie altrettanto bene il cuore del problema interpretativo della poesia cvetaeviana: quello, senza dubbio, di avvertirvi una radicalità di sentimento e di pensiero che ben poco ha di letterario, e molto invece di vita vissuta “fino in fondo”, scevra di cedimenti o compromessi con le convenienze del momento, in piena coerenza con quella radicalità come scelta esistenziale, e dunque - quando avanzerà la disperazione indotta dalla mancanza di mezzi di sopravvivenza - anche fino all’estremo gesto dell’autoannullamento (il suicidio, che chiude la vita della Cvetaeva, è puntualmente prefigurato nella sua scrittura).
La proposta interpretativa dei curatori viene chiarita nel Commento che gli stessi appongono alla fine della selezione di liriche dei due poeti, dove leggiamo che:
“Uno dei modi per conoscere il mondo e se stessa per Marina Cvetaeva è dormire e sognare per poi trascrivere i propri sogni e addirittura realizzarli di nuovo nel sonno. Curiosamente sia il sonno che il sogno in lingua russa sono espresse con una sola parola, ossia son. La poetessa gioca abilmente col doppio significato nella versificazione, lasciando, a volte, il lettore nel dubbio”. (pp. 83-84)
Nello stesso torno di pagine si fa un opportuno ricorso ad alcuni contesti della corrispondenza della Cvetaeva per “apprendere pienamente che cosa la stessa intendesse parlando del sogno”; particolarmente significativo appre il seguente brano:
“Il sogno - questa sono io in piena libertà (inevitabilità), è quell’aria che mi serve per respirare. È il mio tempo, è la mia ora del giorno, è la mia stagione dell’anno, la mia longitudine e latitudine. Soltanto in esso io sono io. Il resto - è casualità”. (p.84)
E dunque si argomenta che
“Marina Cvetaeva considerava il sogno il modo preferito della comunicazione, con i vivi e con i morti. Il motivo dei sogni (in russo snovidenie ‘vedere il sogno’) costituisce uno dei temi principali della corrispondenza di Marina Cvetaeva con Boris Pasternak. Marina e Boris si regalavano i propri sogni a vicenda. Il narrare del sogno spesso si intrecciava con i ricordi d’infanzia e con le spiegazioni delle fonti di ispirazione poetica”. (p. 84)
Più avanti questo argomentare dei curatori (il sogno come modo preferito della comunicazione della Cvetaeva) si rafforza, tra l’altro, con queste affermazioni:
“L’opposizione della realtà e di sonno/sogno nella poetica di Marina Cvetaeva è parallela all’opposizione quotidianità (byt)/esistenza (bytie). Soltanto nel sonno/sogno, secondo la poetessa, l’uomo si risveglia alla vera attività” (p. 85)
E, per una migliore comprensione delle poesie riportate alle pp. 46-53, ma con evidente effetto rafforzativo dell’interpretazione generale dei testi scelti, i curatori si premurano di addure quest’altro brano epistolare della Cvetaeva (tratto da una lettera del 1923 a A.V. Bachrach):
“Posso vivere soltanto nel sogno, nel semplice sogno che sto sognando: ecco che precipito dal quarantesimo piano a San Francisco. Arriva l’alba e io sono inseguita. Ecco un estraneo a cui do subito un bacio. Ecco che stanno per ammazzarmi... e io mi alzo in volo. Non sto raccontando fiabe, i miei sono sogni mirabili e terrificanti, con l’amore e con la morte: questa è la mia vera vita, senza il caso ma assolutamente fatale, dove tutto si avvera”.
Risulta evidente, seguendo questo filo conduttore, la sottolineatura del grande rilievo che nella poesia della poetessa russa assume la componente onirica: il sogno, il sognatore appaiono qui come attività di natura panica, dionisiaca, espressione di forze e impulsi irrazionali che necessariamente, inevitabilmente, devono trovare il loro sbocco nella scrittura. E senza dubbio i testi selezionati - poichè non renderebbero, in altri termini, che visioni, trame, figure di un’intensa attività onirica della poetessa (oltre che, naturalmente, di altrettanto intense esperienze di vita) - possono giustificare questa interpretazione. Ho tuttavia l’impressione che questa caratterizzazione risulti un po’ troppo calcata: c’è in essa come un eccesso di luce che andrebbe diminuito, pena l’equivoca comprensione della natura della Cvetaeva nella sua interezza, così come concretamente si è manifestata. Se appare giusto, insomma, ammettere il forte radicamento, nella mentalità di quest’ultima, della diade di sonno-sogno (e dell’altra fortemente implicata di vita-amore) come modalità espressiva di prim’ordine, non credo si possa però attribuirvi una valenza onnicomprensiva, quale vero e proprio asso portante del suo pensiero poetico.
Effettivamente ci sono testi, fra quelli raccolti da Dvizova e Panconesi, la cui sostanza è tipicamente onirica, vera e propria trascrizione in versi di scene e visioni sognate. Esemplari in tal senso le poesie contraddistinte con i numeri 5 e 7. Nella prima di esse la libera sequenza delle immagini rivela il tratto, ben tipico dei sogni, dell’apparente casualità; inoltre la scena onirica complessiva è costituita da minuscole scene, con al centro un animale o più animali, tutte a sè stanti (si direbbe come in quadro di Chagall), cioè non aventi fra loro nessun elemento logico di mediazione; ma è forte la sensazione che queste piccole scene ricevano un’intima armonizzazione dalla calda affettività della poetessa, in funzione appunto della logica in esse mancante.
Il testo n. 7 - piccola e bella poesia dal contenuto intenso - riporta la dichiarazione esplicita dell’origine onirica del testo stesso: Un bambino, occhi neri / ho visto in sonno. Il che fa risaltare l’assenza di un elemento ben frequente in altre poesie della selezione: la contiguità dell’insonnia col sonno-sogno, la sua odiata-amata presenza, foriera tanto di sogni (ove la lotta con essa sia vinta a favore del sonno) quanto di mera debilitazione fisica (ove la lotta ingaggiata con l’insonnia produca soltanto un angoscioso vagare notturno della mente).
Proprio questa breve lirica, perlatro, ci rivela un meccanismo ben tipico dei sogni (all’unisono con l’interpretazione freudiana, si direbbe), da cui dipende, credo, tutta la sua bellezza. Si tratta della fusione (o meglio, della condensazione, secondo il linguaggio psicanalitico) dei due soggetti presenti nella prima strofa (il pino da cui proviene un fischio tenero-tenero, alto-alto e il bambino dagli occhi neri), in un solo soggetto: il bambino, che già nella prima strofa è una parte un po’ indistinta del pino (qualcosa nel pino ha fischiato), nella seconda strofa è come se cedesse al pino stesso la freschezza della sua età e l’umidità lucente dei suoi occhi: Così al giovane rosso pino, / a gocce, / cola la resina calda.
Ma gli altri testi della raccolta non possiedono la tipicità onirica delle due poesie appena viste: ci presentano invece un quadro più mosso del rapporto sonno-sogno ed il contenuto onirico è meno esplicito, rappresentando piuttosto lo sfondo dei testi stessi. A rendere più articolato questo rapporto è il ruolo svolto da quella fase contigua al sonno (precedente o frammista a d esso) che è l’insonnia, per la Cvetaeva condizione esistenziale di grande importanza, alveo fecondissimo della sua creatività.
Il testo n. 1 ci offre una prima contraddittoria rappresentazione di questa condizione: vi si percepisce infatti una disperata ricerca del sonno, atteso come liberazione da una corona d’ombra (l’insonnia, appunto); nel contempo vi si coglie, al contrario, l’autorivelazione della Cvetaeva di essere come predisposta allo stato insonne (L’hai invocata e richiamata / quella corona d’ombra, le dice l’insonnia - quasi personificata, alla stregua di un idolo notturno - nella strofa 4). La metafora della corona d’ombra, molto bella e di grande efficacia, viene introdotta dall’immagine di un cerchio d’ombra che Ha cinto i miei occhi (strofa 1): poichè nella strofa 4 l’insonnia rivolge all’autrice il suadente subdolo invito Un paio dei miei anelli / porta pallida in viso!, di questa insonnia si intuisce il senso non meramente descrittivo, ma prescrittivo e cogente, quasi fosse una catena cui autoincatenarsi. Dalla strofa 7 (dormi, placata, / dormi, onorata, ecc.) fino alla 11, l’insonnia personificata canta alla poetessa una nenia, una sorta di ninna nanna per indurla al sonno...: una rappresentazione che, nel suo geniale parossismo, riesce a rendere la contradditoria condizione psichica della Cvetaeva stessa, combattuta fra gli ooposti desideri del sonno e dell’insonnia.
Nel testo n. 2 ritorna la consapevolezza dell’accettazione sovreccitata dell’insonnia (E poi le porte aprire! / Spalancandole nella buia notte!): giusta appare pertanto, l’individuazione della Cvetaeva d’una tendenza all’insonnia quale fonte della sua creatività. Qui si apprende come lo stato insonne renda possibile la percezione... dell’impercettibile, cadendovi quel momento di solitudine e di silenzio profondi in cui ad una sensibilità dolente e particolarmente recettiva è dato immaginare (vedere?), ad esempio, la sorte d’un uomo dal mutare del suo passo (Da qualche parte, nella notte, / un uomo sta affogando). Questo il contenuto delle strofe 2 e 3, in cui la poetessa si coglie appunto in quell’atteggiamento di sofferta concentrazione (Tener la testa / stretta fra le mani, / ascoltare, ...) che le consente una raffinata, fantasmatica interpretazione delle fonti di rumore percepite nella veglia notturna. L’insonnia richiama insomma un drammatico agonismo dei sensi e della mente. È una lotta, un dramma che si svolge in uno scenario scontato, quello notturno. Nei testi che abbiamo di fronte la notte rappresenta un riferimento spazio-temporale in effetti costante, apportatore di tonalità ed elementi evocativi di grande suggestione. Esemplare il testo n. 3, fin dall’incipit, la notte sovrasta immensa lo spazio urbano e domina la mente insonne della Cvetaeva (Solo una cosa io mi ricordo: notte), la quale si coglie come in fuga solitaria per la città (Dalla casa assonnata vado via). Ma ancor di più ci dice la poesia n. 8, che non tematizza l’insonnia, nè il sonno-sogno, bensì proprio la notte. Alla notte (introdotta con una metafora di grande efficacia: Nera, come la pupilla, come pupilla che succhia / la luce, a voler richiamare l’avidità di un occhio che, eccedendo nella sua funzione visiva - notte dalla vista acuta, viene detta di seguito - assorbe tanta luce da raggiungere l’effetto di somma di tutti i colori che costituisce il nero) la Cvetaeva rivolge, con pathos di intonazione romantica, un’invocazione esaltativa che, fino alla terza strofa, si conforma come un piccolo inno. Sull’abbandono e sul pathos della lirica emerge però, nei versi finali, la motivazione amara, profondamente realistica dell’invocazione stessa: sono il disincanto ricavato dai rapporti umani, la sofferenza che marca l’esistenza quotidiana a spingere la poetessa a cercare l’annichilimento, il perdersi nel sole nero della notte (Notte! Le pupille umane / fino in fondo guardai: / incenerisci me, / nero sole - notte!).
Mentre sull’emersione di questi motivi realistici sarà bene soffermarsi più avanti, è opportuno percorrere ancora un po’ lo sfaccettato poliedro dell’insonnia cvetaeviana. Nella poesia n. 4 ecco infatti presentarsi, in contrasto con quanto fin qui notato, la mera descrizione d’un’insonnia solto debilitante (con effetti corporei infecondi per una mente creativa), in quanto non contigua al sonno-sogno: l’astenia fisica soprattutto - da cui l’espressione disarmata del volto e il sorriso beato, quasi ebete - e, quindi, la passività e l’indifferenza verso il mondo sterno. Nella terza strofa, assai intensa, proprio questo squallore corporeo (impossibile trascurarne la forza realistica), rivela il vero soggetto del testo: ovvero la triste constatazione che la notte è passata senza sogni, preparata dall’esausto abbandonarsi alla luce carezzevole dell’alba: La notte ha acceso questo / luminosissimo volto; / e, dal suo buio, solo una cosa gli occhi, / a noi rimane oscura. L’amara (quasi cruda, per l’evocazione di una sorta di cecità) metafora dell’oscurità degli occhi dice appunto che, nella notte, non c’è stata alcuna visione onirica.
Con l’eccezione del contrastante segno di questa poesia, peraltro la selezione dei testi orienta con sicurezza il lettore a percepire il senso prevalente in cui la Cvetaeva manifesta il suo rapporto ispirativo con il sonno-sogno e con l’insonnia: da una parte un libero vagare tra gli scenari dell’immaginazione e un altrettanto libero abbandono alla resa poetica di ciò che è stato visto in sogno; dall’altra la tendenza a vedere nella veglia notturna una condizione propiziatrice al sonno o, più probabilmente, un intervallo di lucidità psico-fisiologica comunque aperto al rapimento del sogno; in altri termini la tendenza a mischiare, a concepire insieme, come due stati indistinguibili, la componente di lucidità che distingue il sè vegliante e quella inconscia (fantastica, irrazionale ecc.) in cui cade in sè il dormiente, sì da ottenere una sorta di insonnia sognante
Sicchè, se riprendiamo il testo n. 3, più sopra lasciato al punto di fuga della poetessa dalla propria casa immersa nel sonno, il suo contenuto onirico (di sogno che viene raccontato) appare evidente; ma allo stesso modo evidente, nello svolgersi del sogno, appare l’azione di una mente cosciente che cerca il lenimento della propria angoscia. I sensi, seppur potenziati dall’insonnia sognante, aiutano la mente a cercare nello spazio attraversato gli elementi e i modi per una percezione ancora razionale della realtà: la strada spazzata dal vento, una musica lontana che giunge da una finestra illuminata...; qui ecco condensarsi (come già visto in altra poesia) gli elementi del vento e della musica nell’invocazione al vento perchè diradi (o lenisca) l’angoscia dell’anima (Vento, è tempo di soffiare fino all’alba, / per le sottili pareti del petto, nel petto). Il paesaggio notturno è costituito da uno scenario di elementi frammisti, visivi e sonori, addirittura gustativi, suscitati dall’influsso deformante di un’insonnia che ormai sconfina in una sorta di sogno a occhi aperti: ecco infatti la Cvetaeva vedere, proprio come nelle libere sequenze di un sogno, un pioppo nero, una finestra accesa, luci in fila (a formare collane d’oro); sentire lo scampanio proveniente da una torre, precepire il proprio passo e vedere - con una precisa sensazione di sdoppiamento della personalità - l’ombra isolata di se stessa (senza autopercepirsi, appunto, come corpo di quell’ombra); avvertire il sapore di una foglia in bocca; riconoscere infine la cerchia degli amici, cui ripetere l’invocazione di essere liberata dai nodi del giorno, già rivolta al vento nella seconda strofa.
Sempre muovendosi nello spazio tematico fortemente ambivalente fin qui visto, tre poesie (nn. 9, 10 e 11) ci portano a lambire quasi il nucleo intimo della psiche della poetessa, o almeno alcune motivazioni profonde della sua personalità. Nella n. 9 l’insonnia viene rivendicata, assai esplicitamente, come una condizione per non morire, per affermare - con ansiose esortazioni a un “tu” indistinto - una ostinata vitalità (molto bella la prima strofa, aperta dal verso Chi dorme nella notte? Nessuno dorme!, e dove è data una piccola serie di esempi di ‘vita notturna’ che smentiscono la necessità di dormire: il bimbo che piange nella culla, il vecchio seduto... sulla sua morte, il giovane amante che respira nelle labbra dell’amata). Assai significativo il punto di partenza della poesia, rappresentato dal passaggio analogico che collega il sonno (inaspettatamente non considerato come alveo fecondo di sogni) al sonno eterno; centrale, in effetti, appare il distico che forma laseconda strofa, che esprime con semplicità l’inconscia paura di non risvegliarsi dopo il sonno notturno (Se ti addormenti, qui ti risveglierai? / Avremo tempo, avremo tempo, tempo di dormire!).
La lirica n. 10 varia il tema della precedente: nel senso che, ancora, la veglia notturna - di cui è chiaro segno una finestra accesa (ammancabile in ogni casa) -, non richiama solo frenesia di vita, d’amore ecc., come visto sopra, nelle sue incondizionate manifestazioni positive, ma racchiude anche, a veder bene, il lato oscuro, negativo d’una disperata vitalità; sicchè una finestra nella notte parla (urla, addirittura, come se lo dovesse dire a tutto il mondo)...
Data recensione: 01/07/2006
Testata Giornalistica: Capoverso
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