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Nel clima di “oggi” Ungaretti e Montale non avrebbero avuto fortuna letteraria. È un “oggi” da collocare nella seconda parte degli anni sessanta, per essere più precisi nel

Il carteggio durato alcuni anni tra Carlo Betocchi e Antonio Pizzuto, che fu questore e capo dell’Interpol e, andando in pensione, divenne un caso letterarioNel clima di “oggi” Ungaretti e Montale non avrebbero avuto fortuna letteraria. È un “oggi” da collocare nella seconda parte degli anni sessanta, per essere più precisi nel gennaio del ’67 quando Carlo Betocchi (1899-1986), in corrispondenza con Antonio Pizzuto (Palermo 1893 - Roma 1976), ex questore e vicecapo Interpol, di cui lamenta la scarsa fama a fronte di un eccellente opera letteraria, se la prende con i critici di cartello che «debbono tirare via... Con te non possono tirare via e stanno zitti». Betocchi approfondisce il tema, toccando le fortune di Ungaretti e Montale: «Né si può pretendere di fare del nuovo ed essere ampiamente discussi. Sono fortune che capitano una volta sola e che incidentalmente capitarono — con un decorso di vent’anni lentamente sviluppatosi — a Ungaretti e Montale. E ce n’erano ragioni che ripensarle e dirle oggi sembrano paradossali. Ma loro stessi nel clima di oggi, sarebbero stati — con tutti i loro meriti — molto più probabilemte trascurati». Nella collana “il Diaspro” edita da Polistampa, che sta rieditando a cura di Antonio Pane l’opera pizzutiana, sono pubblicati alcuni epistolari di particolare pregio, come il carteggio fra Vasco Pratolini e Alessandro Parronchi o tra Gadda e Bigongiari. Una parte da leone la fanno le corrispondenze di Antonio Pizzuto: con Giovanni Nencioni, quindi con Margaret Contini, con Gianfranco Contini e adesso, per un periodo che va dal ’66 al ’71, l’epistolario di 65 lettere tra Antonio Pizzuto e Carlo Betocchi (1899-1986), a cura di Teresa Spignoli. L’occasione che dà avvio alla corrispondenza e la collaborazione di Pizzuto, sollecitata da Contini, alla rivista “L’approdo” diretta da Betocchi. Delle lettere di Pizzuto, Betocchi dice che sono veri e propri «monumenti di oreficeria letteraria».
Pizzuto in effetti riconosce di essere affetto da una sorta di «scrupolografia». «L’ardua ricerca di Pizzuto — osserva Spignoli — si era andata concentrando in pagine di ardua densità in cui la scrittura... recava in sè i segni di un rapporto tra significante e referente» e non si confonde con le avanguardie che tennero banco soprattutto negli anni settanta. «Lo ripeto sempre a me stesso: il semplice non è l’approssimativo», scrive il 7 dicembre 1966 Pizzuto a Betocchi che, giorni dopo, il 29 dicembre, replica alle gentili quanto continue richieste di correzione di Pizzuto ai testi già inviati, che «del resto io penso — sarà un pensiero ascetico — che non si deve badare a tutti i pruriti. Stattene al “cosa fatta capo ha”. Beninteso so benissimo che si tratta del tuo travaglio».
Betocchi alla fine non riuscirà più a seguire il lavoro di Betocchi, «la cui arditezza letteraria finirà per segnare agli occhi del poeta fiorentino una sorta di incomprensibilità nel piano narrativo quanto nella scrittura stessa». Già ell’epistolario si prefigura quella «sintassi nominabile che — spiega Antonio Pane — renderà pressochè illeggibile la scrittura di Pizzuto»: infinito, gerundio, relativizzazione del tempo, contiguità dei fatti e delle persone. Nelle lettere fra Pizzuto e Betocchi non potevano mancare alcuni passaggi sull’alluvione del ’66, come questo, del poeta fiorentino a Pizzuto, del 14 novembre: «Se è vero che siamo nei guai, è altrettanto vero che abbiamo una gran voglia di uscirne, lo spirito fatto per questo, e che perciò il mezzo migliore per ritrovar tutti la ssalute è quello di occuparci ciascuno con tutto il cuore delle cose proprie. La vita dello spirito deve in ogni modo sopravanzare i danni della natura che si scatena e diventa odiosa come lo sono tutte le violenze: parlo delle informi violenze senza legge e senza un punto fisso al quale guardare».
Data recensione: 03/03/2007
Testata Giornalistica: Avvenire
Autore: Michele Brancale