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Della «triade» che la storiografia novecentesca ritiene la più rappresentativa di quello che fu definito «ermetismo fiorentino», se n’è andato per ultimo lui, Alessandro Parronchi. Nato a

È scomparso il patriarca dei poeti italiani. Compose, con Luzi e Bigongiari, la celebre triade fiorentina Della «triade» che la storiografia novecentesca ritiene la più rappresentativa di quello che fu definito «ermetismo fiorentino», se n’è andato per ultimo lui, Alessandro Parronchi. Nato a Firenze il 26 dicembre 1914, era di poche settimane il più giovane del terzetto, essendo «bilance» ottobrine sia Piero Bigongiari, morto nel ’97, sia Mario Luzi. Scomparso nel 2005 Luzi - capofila della cultura italiana onorato in extremis con il laticlavio senatoriale e, talvolta suo malgrado, sollecitato come un guru a pronunciarsi intorno a qualsiasi faccenda - a Parronchi l’anagrafe e un prestigio umbratile ma avvertito dagli happy few assegnava obbiettivamente il ruolo di patriarca della nostra poesia. I suoi libri però circolavano e circolano in un àmbito assai limitato, sebbene l’«Oscar» del 1998, Diadema. Antologia personale 1934-1997, figuri sempre in commercio e ogni lettore volonteroso possa procurarsi i due volumi de Le poesie (Polistampa, 2000).
Patriarca, sì, dunque; ma festeggiato con misura: ad esempio a Firenze, per i suoi novant’anni (era ancor vivo Luzi). Non fu davvero una cerimonia di circostanza: nell’occasione infatti uscivano le Poesie dei 90 (Interlinea), a testimoniare durata e rilancio di una vena sempre più spoglia e sostanziosa nella sua forza comunicativa: «Che non son caro al cielo ormai lo so/ se nella vita mi trascino a stento/ non evitando il gemito e il lamento,/ speranze più che tramontate morte./ Di tanta solitudine nel mare/ unica voce tua che mi conforta/ questa che mi trasmette il cellulare». Sono endecasillabi che hanno la stessa presa dei racconti, fra meditazione e memoria, de L’inverno del ’29 (Helicon), presentati anche questi nel novantesimo genetliaco dell’autore. Vi si riconosce il medesimo stile semplificato e senza maschera del Quaderno per Montale (Interlinea 2003), ove si combinano pagine remote e recenti dedicate al poeta ligure; una schiettezza coerente allo spirito dei versi di una plaquette del 2003, Quel che resta del giorno (Le Càriti), in cui Parronchi fra l’altro confessa una sua antica tentazione di isolamento monastico («Amai la solitudine dei chiostri...») poi esorcizzata: «Scelsi la vita. In basso scivolando/ vissi contento di non saper quando».
Ho citato finora da composizioni senili, e avrei potuto con eguale efficacia richiamarmi a liriche degli anni Quaranta, prelevandole magari dalla raccolta d’esordio (I giorni sensibili, 1941). Non perché Parronchi sia un poeta «senza storia» - lo dicevano di Sandro Penna e non allo scopo di sminuirne il valore - ma perché in ciascuna delle sue fasi questa poesia ha trovato, con naturalezza, il linguaggio e i moduli espressivi più limpidi, più diretti. Al pari dei suoi coetanei migliori, esponenti di una generazione fra le più ricche di ardori esistenziali e di risultati, Parronchi non poteva certo ignorare o eludere le grandi rotte del simbolismo europeo; ma uno spirito di classicità armoniosa (foscoliana?) lo sostenne fin dall’inizio. La passione per Mallarmé, ch’egli si cimentò anche a tradurre, soccorso dai fervidi consigli di Ungaretti, non si riverberava, sulla poesia parronchiana, in ambiguità vischiose. I suoi simboli si radicano in un terreno dicibile e verificabile per intero, familiare e autobiografico: quel «coraggio di vivere» che diede il titolo al libro del 1961 (il primo dei quattro editi da Garzanti: seguiranno, fra il 1970 e il ’90, a intervalli decennali, Pietà dell’atmosfera, Replay e Climax) è un emblema e un abito, una parola d’ordine e una anche disperata necessità, consolata forse dalla propria musica sul piano formale e, giorno per giorno, dalle virtù perenni dell’amicizia e dell’amore, nelle quali trapela e anzi risplende la classicità a cui mi riferivo.
L’amicizia si affida, per i posteri, anche a carteggi di fondamentale importanza. Pubblicati quelli con Vasco Pratolini (a cura di Parronchi medesimo) e con Vittorio Sereni, almeno un terzo ce ne veniva annunciato, fra Sandro e Umberto Bellintani, un coetaneo bizzarro autoesclusosi dalla società dei letterati e nondimeno baciato da abbondante grazia poetica nella sua periferica dimora di San Benedetto Po. Parronchi cercava di fargli pubblicità, lo voleva ascritto a quello che oggi si chiamerebbe il «canone» ma, abbastanza defilato anche lui, non ricevendo l’ascolto e l’appoggio che il caso meritava. Fu così o pressappoco per un altro amico, il viareggino Mario Marcucci: Sandro che lo giudicava, dopo Rosai, forse il maggior pittore vivente si spese ma con relativa fortuna per imporlo fra i maestri indiscussi del secolo.
Al profilo di Parronchi poeta concorre indubbiamente il suo non ampio ma originalissimo lavoro saggistico: le pagine su Leopardi, o su Campana, sono contributi di prim’ordine e tutti di prima mano. Ma ancor più notevole è il ruolo dello storico dell’arte (Parronchi insegnò questa disciplina all’Accademia e infine all’Università). Se molti interventi sui moderni e i contemporanei possono aver fatto testo, ben di più hanno pesato, anche per le polemiche provocate da alcune sue attribuzioni, i numerosi studi su Donatello e su Michelangelo, da collocarsi accanto ad altre indagini memorabili, come quelle sulla «dolce prospettiva» di Paolo Uccello.
Campi comunicanti, l’arte e la poesia. La mezzanotte di Paolo Uccello ispirava a Parronchi negli anni Sessanta versi che esaltano proprio la «dolcezza» della «prospettiva», «da ogni angolo sempre nuova e diversa». A una data più tarda risale Il presagio, accesa rievocazione di un momento “epico” del ’53: l’eccitato, fatato ritorno in autobus dal convento del Bosco ai Frati, in Mugello, dove Parronchi ha appena avuto la certezza che il mirabile Crocifisso ligneo ivi custodito è opera donatelliana. E potrei proseguire citando gli spunti che alla fantasia del poeta fiorentino hanno offerto via via Picasso, Rosai, Venturino Venturi, Marcucci - ma anche Giorgione...
Nel porger l’addio alle persone più degne, e nella fattispecie ai poeti più amati, si usa scegliere dal loro volume qualche verso, una sequenza esemplare che ci illumini. E se dell’«Oscar» del 1998 Coraggio di vivere costituiva la sezione centrale - la più vasta -, non meno “coraggiosamente”, appurato il declinare dell’età, l’autore ne battezzava la terza e conclusiva Nuovo cammino (quasi un contraltare a Dalla notte, che apriva). Da quel gruppo mi piace estrarre un frammento amoroso, concreto e fluido come solo ai classici - d’ogni tempo - è consentito: « - È vero che ti sei dimenticato/ di me? - chiedi. - Non crederlo - rispondo./ - Vedo quando imboccammo quel sentiero/ stretto, di cui non si scorgeva il fondo,/ che per rampe di scale s’insinuava/ tra ville addormentate. Approfittammo/ di quel sonno. Il pietrisco fu il tuo letto/ e il mio, non ci nascose a occhi indiscreti/ il chiarore abbagliante della luna./ Con non altra che te fu, con nessuna».
Data recensione: 07/01/2007
Testata Giornalistica: Il Giornale
Autore: Silvio Ramat