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SENECA aveva gli occhi di un azzurro profondo, quasi blu. Fernando Acitelli, romano, lo crede fermamente, lui poeta dei marmi politi, di ogni sarcofago affiorante dall’erba sull’Appia Antica

La grandezza dei secoli, i capperi fra le rovineSENECA aveva gli occhi di un azzurro profondo, quasi blu. Fernando Acitelli, romano, lo crede fermamente, lui poeta dei marmi politi, di ogni sarcofago affiorante dall’erba sull’Appia Antica, delle murmuri fontane di periferia (A ogni fontana/mi chino di stile mi sazio/per l’antichità che nel latino/riposa). Lui che chiama tribuno Francesco Totti e sparge di lacrimata tenerezza la sorte di Drusilla, piccola figlia di Caligola assurdamente trucidata dal padre (Se io di notte avvistassi/ sull’orlo del Foro sì, Drusilla bimba/ fracassata al muro...). Lui che, passando, getta nelle chiese aperte uno sguardo pio, con l’afflato cristiano che qualcuno ritrova anche nel filosofo stoico maestro di Nerone.
Blu di Seneca, non a caso, è il titolo della raccolta di poesie che Acitelli pubblica nella collana “La Fenice” di Polistampa. É una sfilata di figure, una galleria d’ombre e di sguardi che ci proietta nella classicità dove il poeta ama soggiornare e pensare. L’ossessione lirica ed esistenziale di Fernando (quanto condivisibile!) è proprio questa: esorcizzare la decadenza in cui viviamo attraverso un forte contatto con l’antichità. Che diventa, in lui, necessità assoluta, sublimazione della quota di umanità che gli è comunque toccata in sorte.
Qualcuno parla della nostalgia come cura, di “fuga nell’antico”. In realtà, il poeta (romano) non fugge mai, né tenta di sanare le ferite del presente vagheggiando altre epoche. Acitelli, ripetiamolo, trae linfa e dignità quotidiane dal contatto quasi carnale con Seneca, Cicerone, Marco Aurelio e gli altri personaggi amati. Li cerca e li trova assieme ai loro schiavi, ai collaboratori anonimi, protetti dall’oscurità dei millenni, alle donne amate o aborrite, ai legionari, ai mimi, ai gladiatori, ai bambini...
Sodàli e complici di uno che regala loro, tutti i santi giorni, pezzi di vita, i Quiriti della classicità tornano a noi volentieri e ci accompagnano sulla soglia dei templi, sui gradini dell’Ara Pacis (Il divo Augusto esige tailleur e perle/e quel pallore di chi s’addolora sui/classici), nelle taverne trasudanti Bacco e i suoi sileni (Un’osteria al confine del Foro/interdetta al turista e a tutto l’oro/di massa: del vino a un archeologo/sotto il pergolato e che il dialogo/sulla vita e la morte scorra lieto), nei cubicola dove i Cesari, avvolti nei loro terrori, neri o d’oro intero, comminavano inutile dolore (Giunti in alto, gli imperatori/per paura della vita la uccidevano/negli altri). E altrove ancora. Dappertutto. Fin dentro gli interstizi in cui attecchiscono e sbocciano a cascata i capperi giganti.
Comprate il piccolo libro. Osservatelo e toccatelo nella sua voluta e raffinata dimissione. Gustate la sfocatura sublime del volto in copertina (espunto da un sarcofago scanalato, con busto del defunto entro clipeo, rinvenuto alle Terme di Diocleziano e datato 200-225 dopo Cristo). Tenetelo in tasca, l’aristocratico breviario, nella borsa, fra le troppe carte delle vostre agende funzionali. E apritelo per leggere. Un po’ alla volta. Lasciandovi turbare, esaltare, ricreare, nobilitare, commuovere. Fatelo, o voi che frequenate Roma per radici, scelta o sorte. Rubate alla città dei Cesari e dei Papi l’anima che difficilmente rivela, il succo che non dispensa ai distratti, il cuore che riserva ai sovrani e ai servi, ai prelati e ai tifosi, alle matrone e alle puttane.
Un grazie dagli imperatori/mi raggiunge quando, stracco, verso/casa m’avvio, volgendo gli occhi al sole/che smonta al Colosseo.
Data recensione: 18/12/2006
Testata Giornalistica: Il Messaggero
Autore: Rita Sala