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Congiungiamo nella recensione queste due plaquettes (Inganni del tempo di Enzo Agostini e Turnings di Michael Anania) perchè il poeta Enzo Agostino, autore

Congiungiamo nella recensione queste due plaquettes (Inganni del tempo di Enzo Agostini e Turnings di Michael Anania) perchè il poeta Enzo Agostino, autore delle liriche raccolte nella prima (insieme con un tessuto di citazioni in prosa accumulate senza virgolette, dal titolo Uno come me e con Testimonianze di Giovanna Fozzer, Renzo Gherardini e Margherita Pieracci Harwell) è pure il traduttore di un breve, « intenso e composito epicedio», scritto dal poeta statunitense di origini calabrese Michael Anania, professore di inglese in alcune Università americane, redattore e collaboratore di riviste letterarie di poesia, autore di dodici sillogi poetiche. Ora, Anania, la cui famiglia veniva dal borgo montano di Adami Decollatura, alle falde della Sila Piccola, in provincia di Catanzaro, visitò, pur avendo fatto anteriormente viaggi in Italia, per la prima volta i luoghi dei propri antenati paterni nel 2000; nel 2003 lesse, rimanendone entusiasta, i versi in dialetto calabrese, fino ad allora inediti, di Enzo Agostino, nativo di Gioiosa Ionica (1937-2003), sotto il titolo Caccia nt’o’gramoni , e nel 2004 il libro di poesie in lingua, Inganni del tempo, di cui ci occupiamo, una selezione criticamente severa operata dallo stesso autore,
Queste notizie sono ricavate dall’esauriente Nota firmata da Giovanna Frozzer nel secondo volumetto, e si rivelano indispensabile premessa per compenetrarsi dell’atmosfera così profondamente connotata dall’ambiente naturale ed etnico, in tutte le sue remote propaggini storiche, nella quale maturano i frutti di questa lirica. Una terra dove gli avvicendamenti delle stagioni, delle fioriture primaverili vittoriose su piovose o nevose giornate d’inverno a estati fulgide per gli strali di Apollo-Elio, agli autunni non languidi, impalliditi come nel Nord, ma feraci e opimi nel gaudio dei raccolti, generano il senso d’un «eterno ritorno dell’uguale» di nietzscheana memoria e, forse, il momento panico in torridi meriggi traduce in gergo calabro la pregnanza d’eterno nell’Augenblick dell’elvetica estasi di Sils-Maria. Tutto signoreggia con sovranità, divina e fatale simultaneamente, il tempo, scansione inesorabile, filo senza termine che scorre nelle ossute mani delle Parche, di tratto in tratto spezzato con impietosa oggettività per le misere vite individuali, ma fluente imperturbato nel cosmo.
Come si atteggia dunque il sentimento del tempo, come può singolarmente incarnarsi in spiriti colti da quella théia manìa, per altro pericolosa, temibile per il Platone moralista politico, che è l’ispirazione poetica? In questi luoghi dove i popoli di remota progenie si insediarono fin dalle nebbie della preistoria, e ondate d’altri vi si sovrapposero, e nuovi riti, sconosciute teoresi, tìasi religiosi subentrarono a immemorabili rozze credenze, persistendo il giro della ruota nel flusso delle stagioni della natura - in tale temperia essa cresce e matura precoce, incantata e delusa da un chrònos che nella sua maestosa fluenza mai s’impenna in un kairòs repentino - cristiano? - d’assoluta beatutudine: ingannevole dunque per una Sensucht di luce esente dallo strisciare implacato dell’ombra («Un sole sfatto taglia i nostri giorni» (...). «Sale un’ombra quieta (...) in un trascorrere/ lento e muto che sarà forse l’ultimo/ e che alla perdita induce o alla resa», Inganni del tempo, la composizione che dà il titolo all’intera silloge). E il tempo che «straripa», indifferente al desiderio di umani incontri tra le sponde, travolge lo spazio, induce a un vagabondaggio «in giorni senza incroci/ come in un labirinto, insieme in fuga/ e in ricerca, insieme preda pavida e predatore d’inesausta attesa» (Altri inganni). Quale memoria si dipana anche in un autunno non soleggiato, versiliano, «nell’intrico del bosco gonfio d’acqua», in cui al poeta accade di smarrir(si) dentro a un sogno», che la «accende»? Sono, modernamente, solo Fotogrammi in replay, perchè «Qui il tempo è fermo o, più che fermo, in bilico/ tra quel che fummo e quel che non potremo/ più essere», anche se, allude Agostino, «molto breve/ spazio intercorre tra le nostre sfere» e una presenza femminile pertanto - l’altro polo della sua poetica, oltre l’enigmatica immanenza della natura - s’affaccia, per dissolversi, mentre «si ripete/ perenne il rito di fedeltà e d’inganni, di editti e di condanne inappellabili». Si squaderna un mondo, dove risuona l’interrogativo frustrato: «A che speranze, a che indugi incoraggiarsi?». «L’ora del distacco», dopo l’attesa dell’amata «sul ponte/ del Torrentaccio sporco di rifiuti/ dietro l’annuncio tiepido del vento», dopo l’apparire di lei «antica come il tempo, nuova come le cose imprevedute», dopo il cammino dei due, «muti, nel pulviscolo/ del Sole che si sgretola a ponente», sarà colma di «una dolente consapevolezza» (Ci diremo addio senza propositi).
Né giova mutare lo scenario, veder lenta scivolar la corrente dell’ «Arno verdemarcio», sulla quale «il tempo (atmosferico o cronologico?) aduna ancora nubi spesse e grigie», perchè mentre Forse tutto non è chiaro nel tuo cielo, mormora il poeta, «i giorni che restano» hanno bensì «guizzi repentini», ma bisogna «non tentarli, non chiederne la fine, non invocarne un senso», come il «votarsi ai sortilegi», si succedono essi in rapide schiere, parole di disincanto, eppure cariche d’una brama insaziata di quanto esse negano: «la sospensione incerta, l’affollarsi/ delle ombre, l’ansia, l’illusione, il gesto/ ammiccante, la dovizia fantastica»; colei, dalla quale tra breve lo separerà una distanza di luogo e di spirito, guarda a un’aerea chiarità di cielo, ogni cosa filtra nei suoi pensieri - giovanili? - che la spingono a «vivere, ad andare/ oltre i ricordi», in fiammanti «stagioni vichinghe o newyorkesi», liete di smemoratezza nella «smania di esistere».
Il paesaggio, dove è più intriso di ombre interiori nell’amarezza del distacco, nella «pena», come in Sera fiesolana, privilegia l’ora incerta, balenante, del vespero, che con il cadere della luce a occidente suggerisce l’rremissibile fuga dei giorni «vorticosa» - quanto frequente ritorna quest’aggettivo -, piuttosto che le ore di distesa solarità o di cupezza notturna totale. Ancora, la «classica» nitidezza dei contorni, nel paesaggio, si stempera negli avvolgimenti di nebbia «indolente» (Al lago di Vico, Colazione ai monto Cimini, Settembre come un alibi, quando «Il cielo è un buio cielo di scirocco/ che tutto appanna»). Solo di tratto in tratto a rompere l’«immota assenza», in cui «tutto persiste senza mutamento», in un «gorgo di giorni che non segnano la vita/ nè la morte» (Nel labirinto), interrompe con una plenitudine improvvisa una vita di dannunziana sensualità (Nel capanno di paglia, così come nei brevi quadri della sezione Paese di sughero , dagli accesi e densi colori michettiani), senza però le sbavature estetizzanti o le esorbitanze retoriche tanto censurabili nel “vate” abruzzese. Sono intervalli d’adesione all’esistenza nella sua fugace tangibilità, quale si dispiega pure nelle liriche dialettali gioiosane - al sottoscritto impervie - della citata Caccia nt’o’gramoni, questi spazi di vitalismo nutriti dai succhi ancestrali d’una terra opulenta di peculiari tradizioni, che mescolano inscindibilmente il sacro di religione e fede con il carnale («Santo Roccu braccata dentro i vicoli (...), in concorrenza con le fattucchiere/ era mezzano ai sogni delle vergini», e, in note indispensabili a questi sette schizzi, si precisa che le processioni al Santo dalla gamba piagata negli anni Quaranta implorarono sì la fine della guerra, ma anche l’intercessione perchè le giovani trovassero lo sposo).
Questi «acquerelli», direi, di un cromatismo e di un linearismo sicuri nella sveltezza del gesto descrittivo, non si appiattiscono però nell’immediatezza del godimento sensitivo, pòrto dalla scena; addensano invece ricordi storici, assimilano immemorabili frammenti mitici, con naturalezza, non ostentata erudizione, oppure talora attingono (II, «quando la luna giace spossata»), ritmati da una sorta di ritrnello, una popolaresca felicità. Gli autori delle Testimonianze, accumunati dall’amicizia ad Agostino, si accordano nell’avvertire una paradossale, ossimorica continuità che lega il travaglio, il patimento del tempo, «la frenetica/ fuga verso una sera spenta, opaca/ nostalgica d’un mare perso, eterno,/ impossibile madre, nulla e tomba» (Il mare d’Ulisse) alle esplosioni di panica vitalità, poichè le distanze negli anni in cui le liriche furono concepite non consentono una partizione rigorosa tra stasi e toppe, se non fosse per la stagione più aggravata dalla mestizia dei ricordi (In morte di una madre, Anniversario: «Si sciolgono nel cuore/ movenze, apparizioni, gesti, immagini/ depositati in fondo alla memoria/ che s’accende d’un tratto come fuoco/ soffiato da una brace lenta a estinguersi») o da presagi di morte («Non dolertene, sai quanto mi basta/ l’eredità del tempo che rimane/ da percorrere prima di raggiungerti», Dalla casa vuota). La Musa ironica, quasi repentinamente irata agita solo i versi di Chagall ed altri, una protesta veemente all’indirizzo di chi, aspirando a una «normalizzazione» borghese e perbenista, pretende di vedovare l’umanità dell’insorgenza exlege, che nasce dall’arte («uccidete/ Chagall/ costringendolo a rimettere a posto/ isbe capre e lillà (...) segregate in manicomi/ Dino Campana/ e girerà sempre più ossesso il mondo»). In questo autore, appartato, riservato, eppure «fermentante» - così più volte apostrofa il suo sangue «magnogreco» - il dettato poetico ha nel ritmo per lo più pacato del verso, che sa con forza definire i profili delle cose, dei paesaggi, anche se autunnali o crepuscolari nebulosità li «scontornano», un innato prestigio di classicità non aulica e fredda di artifici, ospitale invece a un’inquietudine, a un insonne rodìo del pensiero, a un estremo oscillare delle emozioni, o a un lento svariare dei sentimenti. La compostezza del ductus si avvale di un linguaggio puro, «elegante», come lo oggettiva la Fozzer, ma non «eletto», privo di affettati arcaismi e di preziosità decadenti; le inflessioni dialettali, che pur sarebbero state congeniali ad Agostino, per la padronanza delle risorse espressive nell’idioma gioiosano, sono parcamente riservate ai «bozzetti» del Paese di sughero. La scansione del verso, indubbiamente oggetto di assidua e sapiente cura, evitando di chiudere con troppo ovvia facilità la frase, principale o secondaria che sia, entro la misura d’esso e protraendola spesso nel successivo, contribuisce all’organica solidità del discorso, o meglio del canto, del quale il lettore attento pur dei lacerti che qui gli sono stati concessi ha certo percepito una musicalità lontana da banali assonanze onomatopeiche......
Data recensione: 01/03/2006
Testata Giornalistica: Humanitas
Autore: Giulio Colombi