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«Pacificare l’Europa, per pacificare il mondo! Anche noi – come Città unite – operiamo in questa direzione

Le parole attuali di Giorgio La Pira sulla guerra, l’idea di una sorta di Onu integrale dei popoli, costruita dal basso, alla ricerca di originali strumenti di dialogo. Temi al centro del nuovo libro dello storico Massimo De Giuseppe

«Pacificare l’Europa, per pacificare il mondo! Anche noi – come Città unite – operiamo in questa direzione: il congresso di Leningrado (in luglio) e un progetto nostro di un convegno dei sindaci delle capitali di tutta l’Europa (a condizione che Bonn venga) sono originati, appunto, in questo senso: pacificare, unire l’Europa intiera. Siamo (noi europei) una sola eredità (storica, spirituale, culturale, scientifica etc.) ed i sindaci delle capitali (da Madrid a Mosca) sono i coeredi di questa eredità che è essenziale alla storia futura del mondo intiero. Se l’Europa prenderà coscienza di questo “patrimonio ereditario” che essa possiede per la storia nuova e per le nuove generazioni del mondo intiero, allora davvero fiorirà la primavera storica su tutto il pianeta». Impressiona rileggere nel 2022, nel pieno della tragica guerra tra Russia e Ucraina, queste parole estrapolate da una lettera inviata da Giorgio La Pira il 14 febbraio del 1970 ad Aleksej Nikolaevi? Kosygin, all’epoca primo ministro dell’Unione Sovietica. Gli orizzonti di dialogo L’Europa si cominciava a muovere lentamente verso nuovi orizzonti di dialogo che, cinque anni dopo, avrebbero portato alla firma degli accordi di Helsinki, a suggello di una stagione di distensione tra le due super-potenze, ma anche di un crescente attivismo continentale, proprio mentre si andava allargando la guerra in Indocina, soffiavano nuovi venti di crisi sul Medio Oriente e la Cina si apprestava a una radicale svolta strategica, destinata a riportarla nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Quando scrisse quella lettera, Giorgio La Pira, uno dei più singolari politici cattolici italiani, professore di diritto romano, già membro dell’Assemblea costituente, sottosegretario al Lavoro, nonché sindaco di Firenze dal 1951 al 1965 (pur con alcune interruzioni), era diventato già da due anni e mezzo presidente della Federazione mondiale delle città gemellate (Fmvj): un’istituzione transazionale di origine francese che lui avrebbe portato (nel 1974) a rinominarsi Federazione mondiale delle città unite (Fmcu), a rimarcare l’idea di una sorta di Onu integrale dei popoli, costruita dal basso, alla ricerca di originali strumenti di dialogo. La suggestione che esercitava la sua figura prendeva forza da episodi facendone un simbolo dell’immenso patrimonio di speranze, talvolta incoffessato, più spesso addirittura rinnegato, che viveva sotto la crosta della società italiana. Il sindaco di Firenze, veniva presentato come un uomo che riduceva il suo amministrare a un’opera di assistenza. Ma in quella parola il suo collaboratore più significativo, Nicola Pistelli a cui un pezzo della politica bergamasca titolò un circolo culturale, c’erano dentro anche i convegni internazionali per la pace e la civiltà cristiana che divennero l’unico punto di incontro tra uomini di fede e di pensiero diversi. Quell’organismo inter-municipale era nato a metà anni Cinquanta su progetto di Jean-Marie Bressand per valorizzare il dialogo tra enti locali dei due blocchi e presto era stato ammesso con status A presso l’Onu e l’Unesco, entrando in competizione con il filoccidentale Consiglio dei comuni di Europa e con la più antica Unione internazionale delle autorità locali (Iula). I due enti si sarebbero poi fusi nel 2004, dando vita all’Unione delle città e dei governi locali (Uclg), che comprende anche Metropolis (la rete delle megalopoli). La Fmvj nel tempo sarebbe però diventata anche un dinamico vettore politico-culturale, promotore di una originale ostpolitik francese negli anni di presidenza di Charles De Gaulle, nonché ente protagonista di innovative forme di cooperazione decentrata tra Paesi del nord e del sud del mondo, con una particolare vocazione africana, per quanto La Pira cercò di allargarne la sfera anche in America Latina e in Asia (arrivando a proporre gemellaggi tra città statunitensi e vietnamite in vista della fine del conflitto). Questi temi sono al centro del nuovo volume dello storico Massimo De Giuseppe, «La diplomazia delle città. Giorgio La Pira e la Federazione mondiale delle città unite», edito da Polistampa di Firenze. Professore di Storia contemporanea presso l’Università Iulm di Milano, De Giuseppe è già autore di rilevanti studi su La Pira, Mazzolari, Romero, sulla politica estera italiana, sul pacifismo. La diplomazia delle città nasce da una lunga ricerca tra le carte conservate nell’archivio storico della Fondazione Giorgio La Pira di Firenze e in altri archivi nazionali. Uno scavo che riporta alla luce la stagione meno nota del politico cattolico, seguita alla sua rinuncia alla guida di Firenze e alla contestata missione ad Hanoi del 1965. La ricerca si dipana lungo il delicato passaggio dalla seconda metà degli anni ’70 alla prima metà dei ’60, sviluppandosi attraverso cin(1968-1969)», affronta l’attenta tessitura e strategia internazionalista di La Pira, attraverso i rapporti con una serie di leader politici dei due blocchi e dei paesi emergenti (da Nasser a Senghor) e con figure istituzionali, a partire dal segretario generale dell’Onu, il birmano U Thant. Ne scaturisce l’attenzione verso nuove forme di sviluppo quali i «gemellaggi-cooperazione» ma anche una spiccata sensibilità per i fermenti in atto, anche nel mondo giovanile, nella stagione della contestazione, come emerge dal discorso tenuto a Tunisi nel 1968 sulla «primavera della storia». La Pira si dimostra coerente anche nel prendere le distanze dalle scelte della dirigenza francese in relazione alla crisi di Praga, rifiutandosi di partecipare a una conferenza nella capitale cecoslovacca come risposta simbolica alla repressione armata sovietica. La necessità di accompagnare le forme di distensione e negoziali, a partire da una dimensione decentrata, generando un senso di consapevolezza internazionalista anche nei cittadini, giunse a un punto di autentica maturazione nella stagione successiva, analizzata nel terzo capitolo: Da Leningrado a Santiago: gli enti locali nel negoziato globale (1970-1971). Qui emerge la grande capacità dell’ex sindaco fiorentino di associare a iniziative politiche concrete (ben lontane dalla nomea di vuoto utopismo del «sindaco santo» affibbiatagli da certa stampa ostile) a una discussione intorno a una tavola di valori alti, come emerge dalle minute del testo del discorso di Leningrado, ma anche dai carteggi con Paolo VI, dal sostegno ai viaggi latinoamericani di Corrado Corghi, e con i colleghi sindaci della federazione. Al contempo emerge anche un senso di isolamento all’interno della Dc (particolarmente rivelatrici risultano le lettere con il ministro dell’Interno Franco Restivo per denunciare l’ostruzionismo delle prefetture). È interessante notare che in quella fase l’interlocutore principale per La Pira non è più il vecchio sodale Fanfani, bensì Aldo Moro, alla guida della Farnesina dal 1969 al 1972 e capace di guardare all’azione della Federazione (e dell’amico La Pira) con un prudente ma sincero interesse. L’ultimo capitolo, «Da Sofia a Dakar: sanare le città e le nuove sfide della cooperazione (19721974)», traccia infine l’epilogo della guida lapiriana della federazione, passando per una serie di progetti mancati (dal convegno tedesco dei sindaci delle capitali europee al nuovo Colloquio mediterraneo di Firenze) ma anche sperimentazioni coraggiose quali l’incontro milanese organizzato con la Giunta Aniasi per promuovere forme di sviluppo innovative in Africa e l’apertura al tema ecologico per la salvaguardia delle città, sviluppato precocemente in occasione del convegno di Sofia. Emerge anche una delusione generale per l’approccio strumentale dei sovietici e per il reiterato ostruzionismo statunitense a un progetto che coinvolge anche comuni con amministrazioni comuniste. L’epilogo di questa storia transnazionale porta, di conseguenza, a un ritiro di La Pira dalla guida della Federazione, di cui mantenne la presidenza onoraria fino alla sua morte, il 5 novembre del 1977. La stagione meno studiata In conclusione, questo denso saggio, dotato di una vivace scrittura, ci porta dunque alla scoperta della stagione meno studiata nella vita di Giorgio La Pira, dipanandosi lungo un decennio di esperimenti e proposte in una stagione i profondi cambiamenti a livello globale, di crisi regionali e di trasformazioni degli scenari della guerra fredda, del terzomondismo e dell’idea stessa di Occidente. Coerentemente La Pira cercò di rimettersi ancora una volta in gioco, sulla base dei propri principi e di una indubbia tensione teleologica, riadattando la «tesi fiorentina» ai nuovi contesti, confrontandosi con nuovi attori e interlocutori, politici, sociali e religiosi, per portare avanti una idea nuova della relazione tra città, popoli, stati e organismi internazionali. Tra il 1989 e il ’91, non cadde solo il muro di Berlino ma altri avvenimenti che «esigevano» una sorta di nuova Yalta. Invece abbiamo pensato alla fine della storia e inseguito una visione unipolare dove le guerre si stanno (come quella siriana) eternizzando. Guerre che originano fiumi migratori. Per ragioni diverse quasi 7 milioni lasciano l’Ucraina e più di un milione la Russia. Tutti invocano la diplomazia ma appena hanno perso d’attualità i sottili dosaggi che durante la guerra fredda facevano da deterrente al nucleare, la diplomazia è uscita dalla storia sostituita dalla guerra. Come si legge nella quarta di copertina: «La diplomazia delle città venne intesa da La Pira in senso alto, strumentale a favorire il negoziato globale e una cultura dell’incontro, in una stagione però segnata anche da difficoltà e di crescente isolamento politico in Italia. Un progetto che ci aiuta a capire il metodo di lavoro di La Pira e la sua geografia ideale, lungo l’asse est-ovest, nord-sud, promuovendo il motto “unire le città per unire le nazioni”». È dentro i tessuti urbani che la guerra contemporanea, ad Aleppo come a Mariupol, massacra la sua umanità. Ci vuole un punto di ripartenza da rivivere dentro la città lungo la sua frontiera locale, con una idea nuova del mondo che verrà.
Data recensione: 08/11/2022
Testata Giornalistica: L’Eco di Bergamo
Autore: Gilberto Bonalumi