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«Ogni giorno lavoro in una specie di sommergibile. Il tempo libero voglio trascorrerlo all’aria aperta»

«Ogni giorno lavoro in una specie di sommergibile. Il tempo libero voglio trascorrerlo all’aria aperta». Ed è così che il giardino, per Jacopo Nori, radiologo esperto in diagnostica senologica a Careggi, si fa rifugio una volta appeso il camice e uscito dal piano -1 dell’ospedale fiorentino, che poi è la tipica collocazione di chi osserva «attraverso» il corpo delle persone. Accade però che professione e passione s’incontrino sulla pagina. Da tempo infatti Nori cura libri in cui, in collaborazione con agronomi, gastronomi, storici, antropologi, studiosi d’arte e di letteratura, osserva la natura aldilà dell’“apparenza”. Radiografandola, fuori di metafora. Perché non solo l’approfondisce alla luce delle più diverse discipline, ma sottopone frutti e piante a lastre, proprio come fa con il corpo umano. E il risultato è di un incredibile fascino visivo.
Il primo era sul glicine. Poi, è toccato agli agrumi. Ora, per Polistampa, esce I pomodori ai raggi x, un volume sontuoso per il contenuto ma anche per il ricchissimo apparato iconografico che illustra al lettore stupefatto quanti tipi di pomodori esistano, ben oltre quelli che portiamo con maggiore frequenza sulla nostra tavola. E se i proventi della pubblicazione sugli agrumi andavano all’Associazione “Noi per voi” legata al Meyer, stavolta tocca alla Fondazione Careggi Onlus, che dal 2012 sostiene l’azienda ospedaliera fiorentina attraverso raccolte fondi finalizzate al supporto di progetti di ricerca e all’acquisto di attrezzature.
Fare una radiografia a un pomodoro significa «scoprirne la destinazione gastronomica. Se ad esempio è polposo a sufficienza per finire in un’insalata o se contiene cavità adatte a ospitare ripieni» dice Nori. Ma al di là della deformazione professionale il libro — curato insieme a Donatella Lippi, storica della medicina, e a Nicolò d’Afflitto, enologo ma anche coltivatore esperto: oggi alle 18 la presentazione alla Biblioteca delle Oblate, a cura dell’Associazione “La Nottola di Minerva”, con Stefano Mancuso, le letture e le musiche di Letizia Fuochi — è anche un elogio all’estetica di questo frutto, alla sua sensuale rotondità, ai tanti colori — dal giallo al nero — in cui si presenta oltre al rosso proverbiale. E all’anima “pop” intesa non solo come consumo, ma anche in senso artistico. Le radiografie che illustrano il volume avrebbero destato l’invidia di Andy Warhol, entusiasta di come una macchina destinata alla medicina medicina possa produrre arte dagli effetti prodigiosi, nelle forme e nei colori floreali.
Attraverso i contributi di esperti, il libro racconta tutto del pomodoro: dalla coltivazione alla portata rivoluzionaria nell’industria conserviera italiana, dalla diffusione come cognome al museo che gli è stato dedicato a Parma, fino alle ricette (la semplicità dei mitici spaghettini dei fratelli Briganti, la trattoria storica di piazza Giorgini a Firenze, ma anche le complesse elaborazioni Annie Feolde dell’Enoteca Pinchiorri). E che dire della gimkana tra le doti mediche — la ricchezza di licopene, importantissimo antiossidante, e del betacarotene, a cui si deve la colorazione rossa e un importante contributo vitaminico — i risvolti letterari(dall’Ode al pomodoro di Neruda agli omaggi di Umberto Saba) e cinematografici (Pomodori verdi fritti alla fermata del treno di Jon Avnet dal libro di Fannie Flagg: recensione e ricetta originale)?
Ma questo viaggio in technicolor porta con sé un importante memento. Hai voglia a dire pommarola: l’Italia ha trasformato in uno dei propri simboli un prodotto non autoctono, «da noi il pomodoro è una specie di parvenu» sorride Nori. Conosciuto in Sudamerica da Cristoforo Colombo e importato in Europa da Hernán Cortès nel primo ventennio del Cinquecento, in Italia fa il suo ingresso nel 1548: a quell’anno risale una lettera del dispensiere del Granduca Cosimo de’ Medici al segretario privato del sovrano, dove lo informa dell’arrivo incolume a Pisa di un cesto di pomodori nati da semi regalati dal viceré di Napoli alla figlia Eleonora di Toledo. Mentre pare che sia stato il botanico senese Pietro Andrea Mattioli ad attribuire per primo in Europa il nome nel suo Medici Senensis Commentarii del 1544. Utilizzato per molto tempo come ornamento — l’aspetto non conforme ad altri vegetali lo rese sospetto di proprietà venefiche — bisognerà arrivare al Settecento perché diventi curiosità gastronomica. E l’Ottocento di Artusi per gustarlo come protagonista. 
Data recensione: 11/01/2022
Testata Giornalistica: La Repubblica
Autore: Fulvio Paloscia