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Giuseppe Nicoletti non ha dubbi: il volume Scritti dispersi, che ha la sua curatela, è una ricchissima testimonianza postuma

Giuseppe Nicoletti non ha dubbi: il volume Scritti dispersi, che ha la sua curatela, è una ricchissima testimonianza postuma della personalità veemente e contraddittoria dell’Ottone Rosai scrittore. Anzi, del “teppista” tanto per prendere a prestito un’autodefinizione che fece da titolo ad uno dei libri dell’artista fiorentino, Memorie di un teppista appunto, pubblicato nel 1919. Il confronto tra Rosai e la scrittura avvenne «da “omo sanza lettere” – spiega il critico letterario, già ordinario di Letteratura italiana all’Università di Firenze – privo cioè di una formazione istituzionale di tipo scolastico o accademico. Tutta la sua produzione letteraria rimane fedele allo statuto antigrazioso e anticlassico, e in questo è forte l’analogia con la pittura». Le oltre 500 pagine del volume, edito da Polistampa, mettono insieme le carte conservate da Carlo Cordiè, studioso di letteratura francese, amico di Rosai e dedito ad un instancabile approfondimento dei tanti scritti sparsi dall’artista di via San Leonardo nella sua attività pubblicistica (compresa quella sua Lacerba), qui suddivisi in quattro sezioni che vanno dalle note autobiografiche alle testimonianze d’arte agli scritti di guerra e di politica. La riproposta di saggi dello stesso Cordiè, e del curatore, fanno da illuminante cornice all’autoritratto inquieto di un uomo inafferrabile, la cui discontinuità artistica, politica e umana lambisce momenti culturali decisivi del suo tempo, senza però entrarvi a muso duro. Il futurismo, ad esempio. Spiega Nicoletti: «Rosai si riconosce in quello fiorentino, che si distanzia dagli esiti milanesi per ovvie ragioni di formazione culturale, vicina più ad una struttura tardofondiaria che a quella industriale». Più convinta l’adesione al fascismo, ma non senza le contraddizioni della corrente alternata tra vicinanza e critica. C’è, comunque. È dichiaratissima. Lo raccontano bene alcune pagine del volume, «nessuna censura – taglia corto Nicoletti – abbiamo riprodotto per intero anche i testi che raccontano la militante fiducia nel regime, e nello squadrismo. Prova ne siano i contributi alla Sassaiola fiorentina, foglio legato a quello più becero e violento, creato da Amerigo Dumini che tra l’altro legò il suo nome al delitto Matteotti». Le radici della fede rosaiana nel Duce stanno nella sua biografia. Figlio di un artigiano, fervente interventista, Rosai partecipa alla Prima guerra mondiale con incontenibile entusiasmo patriottico, straordinaria vitalità e esiti eroici; «poi vive tutte le difficoltà postbelliche dell’aristocrazia militare oggetto di accuse, se non di vere e proprie offese, da parte degli esponenti del socialismo e del comunismo. Dagli scritti presenti nel volume, emerge come Mussolini e la sua illusione potessero essere l’unica eco alla sua rabbia cieca. Certo, la fede nel fascismo non è da politico ma da uomo che, tra l’altro, non la utilizza ai fini della carriera artistica. Anzi, non ci fu mai l’adesione allo spirito servile e gregario imposto dal duce. E soprende il fatto che, durante l’occupazione tedesca di Firenze, Rosai abbia dato ospitalità in una sua casa in via de’ Benci al partigiano Fanciullacci. Poi, dopo la liberazione, quando si vedrà congelare il conto in banca per la sua adesione al regime, Rosai scriverà al presidente del Cln toscano Carlo Ludovico Ragghianti una lettera (è nel volume) in cui racconterà una versione pro domo sua della militanza. Ma lui era così. Ad una razionalissima disciplina forgiata su un rigido patriottismo, contrapponeva una ripulsa all’ordine, alla regola, all’uniformità culturale». E che dire di alcune sue opere «d’indole profondamente antifascista – sostiene Nicoletti – come quei ritratti, tenuti nascosti, che raccontano il disfacimento fisico su figure umane sistematicamente maschili (tanto da adombrare l’omosessualità). Il pensiero corre subito a Francis Bacon». Fedele al regime, eppure. Fedele alle amicizie, eppure. Quella con Soffici e Papini – non tra i maestri, ma i maestri – vive di fasi alterne. Lo scritto Alla ditta Soffici-Papini e compagni è una revolverata ai due intellettuali divenuti accademici d’Italia, «e dunque per Rosai traditori di un’idea di arte slegata da interessi mondani. Gli scritti irruenti non sono però capolavori, ma polemiche ai limti dell’offensivo senza nessun grado di incidenza, senza risultati. Rosai pronunciò insomma parole durissime, senza che il regime intervenisse nei suoi confronti, tanti erano i meriti». La modernità? «Emerge nella pittura, negli autoritratti e nei ritratti di amici e discepoli dipinti negli anni Trenta, ma non nella scrittura dove talvolta prevale la polemica, talvolta l’ingenuità memorialistica o un tradizonalismo legato ad un’aura quasi medioevale di cultura. Ma le sue carte sono la testimonianza viva di una generazione di artisti che ebbero la ventura di compiere l’impervio e lungo viaggio attraverso il ventennio fascista».
Data recensione: 18/01/2019
Testata Giornalistica: La Repubblica
Autore: Fulvio Paloscia