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Il pret à porter moderno ha illustri predecessori: gli ordini monastici. La moda dell’apparire infatti, quella che fa rabbrividire gli ortodossi oscurantisti, ha traspirato anche fra gli abiti

Il pret à porter moderno ha illustri predecessori: gli ordini monastici. La moda dell’apparire infatti, quella che fa rabbrividire gli ortodossi oscurantisti, ha traspirato anche fra gli abiti talari. La scoperta, che vaga sul filo del rasoio tra il sacro e profano, ci giunge da un nuovo libro pubblicato da Polistampa Quando l’abito faceva il Monaco, 62 figurini monastici conservati nel Museo Diocesano di Santo Stefano al Ponte Ponte di Firenze (240pp, 18 euro). Il gustoso tomo scritto a due mani dall’architetto Lara Mercanti e dal professor Giovannio Straffi, è una ricerca meticolosa intorno a 62 figurini che ritraggono le vesti dei monaci del ’700 e che sono esposti e conservati nel Museo Diocesano di Santo Stefano al Ponte di Firenze. Ne abbiamo parlato con uno degli autori il professor Giovanni Straffi.
Professore, la vostra ricerca su questi inusuali figurini quanto tempo vi ha richiesto?
«La ricerca che comprende lo studio di 62 ordini religiosi ha richiesto ben 2 anni di lavoro continuativo in biblioteche e chiese fiorentine. L’argomento è abbastanza inedito quindi andava studiato a fondo senza tralasciare alcunchè ».
Immagino che abbiate dato fondo a tutte le biblioteche fiorentine.
«Per questo volume abbiamo consultato circa 60 testi presso la Biblioteca Nazionale, l’Istituto Tedesco di via Giusti, la Biblioteca Marucelliana, l’Archivio di Stato, la Biblioteca di Storia dell’Arte in via della Pergola».
Nella vostra ricerca avete individuato degli ordini più o meno attenti alla moda?
«I modelli più attenti alla moda sono quelli appartenenti agli ordini dei Canonici Regolari, in particolare i Canonici Regolari di San Marco, i Canonici Premonstratensi: nel corso del ’700 si raggiunge il massimo della ricercatezza nella foggia e nei colori degli abiti, specchio del gusto dell’epoca che coinvolge oltre l’abito anche tante altre forme espressive come la pittura e l’architettura».
E per gli accessori? Ce n’erano di più in voga?
«Gli accessori più in voga erano la tonaca e la cappa e lo scapolare, che sono ancora oggi utilizzati. Il colore che maggiormente viene riscontrato è il grigio o più precisamente il colore naturale della lana , la tintura preferibilmente non veniva utilizzata perchè troppo costosa».
Ad oggi gli stessi ordini hanno ancora abiti simili?
«I Domenicani e i Francescani hanno ancora oggi gli stessi abiti dell’epoca raffigurati nei figurini».
Ma oltre agli abiti cosa avete scoperto nel versante “intimo”?
«Per gli indumenti intimi non vi era uniformità di vedute: ad esempio alcuni ordini ritenevano le mutande immorali, altri invece imponevano l’utilizzo dei femoralia sotto la tonaca, che erano una sorta di pantaloni stretti, solo per questioni di decenza»Dopo una ricerca così approfondita avrete delle curiosità da raccontarci?
«Una per tutte: gli ordini che tendevano a una maggiore povertà preferivano non indossare scarpe e camminare scalzi, ma un anonimo domenicano, tuttavia, diceva che era “meglio una umiltà calzata che una superbia scalza”». Uno degli argomenti più interessanti sviluppati nel libro riguarda proprio la storia della Compagnia di Sant’Omobono dei Sarti, (e per sarti si indicano gli “artigiani dell’ago”) nell’oratorio nei pressi della Badia Fiorentina, al quale si deve probabilmente la creazione delle 62 immaginette. Si sa che le Compagnie a quell’epoca servivano agli adepti come occasione d’incontro e avevano come obiettivo comune la preghiera, la penitenza e l’istruzione religiosa. Pare che all’origine di questa Compagnia non comprendesse solo i sarti di professione. Comunque si sa che la fondazione fu effettuata nel 1300. Nel 1551 i sarti si insediano da Santa Cecilia alla Chiesa di San Martino. Qui condividono gli spazi con la Compagnia de Buonomini. “Originariamente i sarti facevano parte della Corporazione dell’Arte della Seta - si descrive nel libro - per poi passare, intorno alla metà del 1300, all’Arte minore dei Rigattieri, dove inizialmente svolgevano esclusivamente attività di sottoposti, per poi raggiungere, solo in un secondo momento, una propria fisionomia indipendente e autonoma. Alla medesima Corporazione facevano capo anche le rammendatrici e i farsettai le cui botteghe si trovavano nell’attuale tratto di via Calzaiuoli, compreso tra Orsammichele e piazza della Signoria. Questa attività artigianale non veniva, almeno in un primo momento, considerata particolarmente elevata, poichè il lavoro svolto non era reputato molto difficile, in quanto i sarti avevano il solo compito di tagliare le stoffe, che poi venivano cucite dalle donne direttamente nelle loro case”. Si legge che nel 1783, i sarti iscritti alla Compagnia, fossero ben 140. Ma nel 1785 anche la Compagnia dei Sarti segue la sorte di molte altre confraternine con la soppressione ad opera di Pietro Leopoldo. A questo proposito, proprio grazie alla Compagnia dei Sarti, gli autori chiariscono la loro tesi che vedrebbe nelle 62 immaginette non una mera descrizione pittorica piuttosto il desiderio di catalogare gli abiti dei monaci con lo scopo di tenere fede ai canoni degli ordini. “È possibile ipotizzare che i ritratti oggetto del nostro studio - chiosano gli autori nel libro - oltre a essere eseguiti per una volontà di documentazione, abbiano potuto rappresentare un vero e proprio “prontuario” per le esigenze di una sartoria o della Compagnia dei Sarti stessa. Potevano altresì servire da “prontuario segnaletico per i monaci della Badia, per riconoscere i tanti frati che giravano per la città, provenienti da un po’ dovunque e in cerca di alloggio o altro”.
Data recensione: 15/12/2006
Testata Giornalistica: Metropoli