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Finita la guerra, sfociata la lotta del Comitato di liberazione nazionale, il suo ultimo presidente per la Toscana, Max Boris, nato nel 1913 e morto lo scorso inverno, liberalsocialista e

Finita la guerra, sfociata la lotta del Comitato di liberazione nazionale, il suo ultimo presidente per la Toscana, Max Boris, nato nel 1913 e morto lo scorso inverno, liberalsocialista e azionista, si ritira dalla vita pubblica. Sottratta finalmente l’Italia alla dittatura, Boris aveva raggiunto lo scopo per cui aveva combatuto nella Resistenza, prima di essere catturato dalla Banda Carità, interrogato e torturato a Villa Trieste, internato a Fossoli e poi deportato nel lager nazista di Mathausen. La sua storia è diventata un libro-intervista a cura di Simone Neri Serneri, docente di Storia contemporanea all’Università di Siena. Intitolato Al tempo del fascismo e della guerra, edito da Polistampa, porta il sigillo dell’Istituto storico della Resistenza in Toscana. La politica di oggi? Boris dice di essere rimasto deluso.
«Mi sono sempre immaginato che in democrazia si dovrebbero scegliere i propri rappresentanti tra le persone più capaci, più sagge, più corrette e oneste - racconta a Neri Serneri - al di sopra di ogni sospeto. Nei fatti fra quel che più mi ferisce oggi è l’accettazione pacifica da parte dei corruttori della necessità della corrruzione per ottenere un determinato risultato».
Nel leggere queste pagine, scorrevolissime e intense al tempo stesso, si rimane attratti da un lato: la memoria del dolore, di quella che efficacemente Hannah Arendt ha definito la banalità del male, ed elemento fondativo di una democrazia condivisa. Non a caso Boris - e con lui Neri Serneri - insiste sul lager di Mathausen: ‘Debbo dire che il campo di concentramento è stato certamente un’esperienza unica, durissima. Si fa presto a dire sopravvissuti il 15 per cento. Gli altri 85 per cento non è che li sopprimi in un momemto. Li vedi sparire uno ogni giorno e ognuno ha la sua storia, il suo dramma. E poi anche gli altri, quel 15 per cento che sono sopravvissuti, non puoi avere un’idea di quel che hanno sofferto».
Nel campo i più feroci non erano le Ss, ma i prigionieri tedeschi «che erano dei poveracci, erano dei criminali, erano gente senza cultura, bassa. Più violenti erano e meglio stavano. Avevano diritto di vita e di morte sui prigionieri. Probabilmente conducevano una vita più agiata che a casa loro. Avevano sotto di sé settecento, ottocento prigionieri sui quali avevano potere di vita e di morte».
Bastava un nonnulla per dare loro motivo di uccidere qualcuno, senza dare spiegazioni a nessuno e «questo dava loro modo di diventare più potenti, più temuti, più ben visti dalle Ss».
La prima parte della sua vita, fino al ’45, e la seconda, fino a ora, non gli hanno tolto la fiducia verso gli altri: «Continuo a credere nello stato di diritto perché è quello che distingue gli uomini dagli altri animali. Credo nel principio che chi comanda è la ragione e non la forza. Comanda una regola che l’uomo si dà per il bene comune e che deve rispettare».
Data recensione: 03/09/2006
Testata Giornalistica: La Nazione
Autore: Michele Brancale