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I falsari rischiarono di mandare tutto a monte. Ma poi, superato anche il problema dei fiaschi, troppo deboli per essere tappati a pressione col sughero, la millenaria

Nel libro di Ciuffoletti la rivoluzione di Cosimo III e il bando che nel 1716 anticipò le moderne Doc

I falsari rischiarono di mandare tutto a monte. Ma poi, superato anche il problema dei fiaschi, troppo deboli per essere tappati a pressione col sughero, la millenaria storia è proseguita. Protagonisti vigne e vini della Toscana, passati dagli etruschi al Medioevo, al mercato europeo tra Seicento e Settecento; dalla rivoluzione ottocentesca innescata dal barone Bettino Ricasoli e dalla sua «formula» del Chianti ai Supertuscan. E il libro a cura di Zeffiro Ciuffoletti Terre, uve, vini, edizioni Polistampa, racconta uno dei momenti cruciali di questa evoluzione, il bando del Granduca Cosimo III che nel settembre 1716 fissò i confini dei territori di produzione di Chianti, Pomino, Carmignano e Val d’Arno di Sopra. La passione per il vino – che coinvolse anche scienziati ed il mondo dell’arte e della cultura – fu una costante dei Medici che curavano le loro tante fattorie ed anche grazie a loro i vini toscani godevano di buona fama tra quelli italiani. Non solo, i legami della famiglia originaria del Mugello con la corona francese, portarono nel 1610 alla pubblicazione a Firenze di un opuscolo Modo di fare il vino alla francese secondo l’uso dei migliori paesi di Francia che conobbe infinite ristampe e contribuì ad una vinificazione più moderna, mentre Cosimo III costringeva i proprietari ad inviargli i loro migliori vini, per poi girarli come omaggi diplomatici in tutta Europa. Il mercato del vino era in gran fermento, con la Francia che dette inizio alla produzione di qualità e inventò i marchi, e l’Inghilterra che da primo importatore di vino impose il suo gusto e la necessità di vini che reggessero invecchiamento e lunghi viaggi, e quando Cosimo III salì sul trono nel 1670 la Toscana mandava a Londra 100 barili di vino l’anno. Ma mentre i vini francesi, spagnoli e portoghesi correvano, venti anni dopo dal Granducato i barili esportati in Inghilterra erano sempre e solo 100 l’anno. Cosimo III cercò di intervenire, iniziando dalla lotta ai falsari che avevano taroccati i vini toscani sul mercato inglese. Il Granduca sperimentò nuovi vitigni, usò i ricevimenti dei governanti stranieri per far conoscere i vini toscani (come nel 1709 per la «merenda» a villa Lilliano, oggi dei Malenchini, in onore del re di Norvegia e Danimarca Federico IV), spinse per vini «grossi e asciutti» come il Chianti e quelli del Valdarno per sfondare in Inghilterra. E alla fine emanò il bando del 24 settembre 1716, con divieto assoluto per qualsiasi vino non prodotto nelle 4 zone di essere commercializzato via mare, così da tutelare la qualità e la reputazione dei vini toscani. Il bando, troppo anticipatore per l’Italia, non cambiò di molto le cose complice la mezzadria che favoriva la produzione per il consumo locale, e le vigne aumentarono solo nel Chianti, ma la valanga era innestata. E se oggi nessuno più conosce i 187 tipi di uva catalogati nel ‘700 da Pier Antonio Micheli (fondatore a Firenze della prima società botanica al mondo) o ricorda il Claretto di Castello, la Verdea, la Vernaccia di Pietrafitta, il Moscadello di villa Petraia, le denominazioni di origine inventate dal Cosimo III sono un valore aggiunto riconosciuto da tutti. E i 100 barili sono diventi 5 miliardi di export l’anno.
Data recensione: 24/07/2016
Testata Giornalistica: Corriere fiorentino
Autore: Mauro Bonciani