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Nella gelata di gennaio, quando la brina sgrigiola e il gelo stride sui parabrezza, decido di sfogliare la poesia cislinguistica di Maria De Lorenzo; capita così di imbattermi non nel solito

Nella gelata di gennaio, quando la brina sgrigiola e il gelo stride sui parabrezza, decido di sfogliare la poesia cislinguistica di Maria De Lorenzo; capita così di imbattermi non nel solito centone di versi fossili, ma in un linguaggio ricco di varianti stilistiche, il cui animus è nell’inquietudine per una realtà ontologicamente limitata, gerarchicamente ordinata secondo la categoria del dolore.
Madre cometa professa con recitata solennità, lealmente, un frammentismo di sostanza, non di apparenza, che diluisce e annulla le convulse buffonate dei media; un impressonismo consolatorio che nobilita nella situazione terrestre il sordido fantasma umano, aggirantesi per rovine e guerre; un diarismo diligente che annota lacerazioni e palpiti personali, sia per cercare un proprio sollievo, sia per ricostruire un paradigma autentico del sentimento (“Stammi stretta alle costole / poesia / non distrarti da me / A poco a poco mi ritroverò / in ciò che ho abbandonato / lungo le strade dell’adolescenza”, p. 87).
Madre cometa risulta un’opera cislinguistica perchè rimane volutamente al di qua della norma, non si carica di donchisciottesche innovazioni formali al solo scopo di épater le bourgeois; ricorre invece alla tradizione (“Andar per l’aere / con più lievi intenti”, p. 45), avendo avvertito la necesità di un discorso, intendo in senso grammaticale-sintattico, per realizzare sintesi credibili di cose e immagini slegate, per dare seguito a un continuum armonico-melodico in ordine al dettato metrico.
Una voce della tradizione, dunque, ma anche della modernità delle quali l’Autrice si fa interprete, ritenendo che non vi siano oggetti o parole privilegiate (il catalogo chiuso della classicità), piuttosto anime, situazioni ed elementi linguistici deputati a tributare un significativo riconoscimento ai fondatori della democrazia letteraria italiana, Leopardi e Pascoli.
Madre cometa, titolo e sezione eponima, si muove tra i mostri d’abisso, l’universo macchinato della Tecnica e le irrequiete reliquie di un umanesimo giunto al capolinea: da un lato gli occhi affamati, non senza disperazione, di umanità, dall’altro l’autorità degli incoercibili dinamismi stoici, prossimi alla deflagrazione finale (a quando la fine della fine del mondo?).
Per conto suo Maria De Lorenzo tenta un’ultima carta, una luminescenza che la guidi, da qui il rivolgersi alla madre morta, alla cometa domestica, alla fiamma consanguinea (La voce del sangue del prologo), mai lisa e consunta, indizio di sgomento e di orgoglio per il tempo trascorso insieme.
In questi testi ornati di metafore, perorazioni, mozioni d’affetti rivive una condizione familiare nella quale dipanare una strada, un percorso d’eloquenza in cui allineare brulcanti sciami di frasi per continuare a credere nella vita e nelle possibilità taumaturgiche della parola scritta e detta in pubblico.
Per evitare di cadere in una tragicità tanto alta quanto inutilamente roboante, Maria De Lorenzo dispone di una sua peculiare cifra composita che coniuga elegia e satira, nequizie e sarcasmi, con l’intento di impedire che le angustie del tempo presente la rendano e ci rendano ancora più infelici.
Terra madre (la seconda sezione) rappresenta un sofferto documento della rovinosa società odierna, nella quale si avverte la drammatica assenza dell’uomo: non degli uomini dominatori, soggeto e oggetto della tecnologia imperante, ma dell’umanità irriducibile a un blocco teorico, a una massa astratta e omologata (“Tutta solitudine / tutte testa / cuore / tutta parola / tutta moltitudine / Inascoltata piange solitudine”, p. 35).
Non si tratta tuttavia di reclamare un generico umanitarismo, piuttosto di assortire nuove presenze vive, esistenziali, autenticamente proiettate verso gli altri.
Se manca la dimensione teleologica, il finalismo della persona, viene meno il senso stesso della Storia e non rimangono che evocazioni disperse, frammenti perduti, essendo del tutto inservibili l’affabulazione e il mito, utili al massimo per stipare il magazzino dell’immaginario (“Homo sapiens sapiens sapiens / trasformabile / intercambiabile / smontabile / trapiantabile / transessuabile /Business man”, p. 58).
Per Maria De Lorenzo manca la voce della natura, difettano i sentimenti veri (tutto ciò che è materia di ragione e di coscienza), ne consegue una poesia che si dispiega per accenti gnomici e struttura epigrammatica, proprio in relazione a un rinnovato bisogno di chiarezza gnoseologica e morale.
L’orecchino di Venere (la terza sezione) propone per paradosso l’evocazione immediata del mito, la vicenda di Afrodite tratta dai regesti leggendari, parodisticamente trascritti dai tempi remoti ellenici e latini.
Se non è più possibile allineare e celebrare storie lustranti di un passato arcadico, vuol dire che l’aristiocratico è finito nel corrente e nel popolaresco e che, al di là del controcanto epico, qualsivoglia resurrezione del repertorio neoclassico suona falsa e stonata (“Un ampleso insiodoso / ti ha staccato le braccia / e la testa è rotolata / chissà in quale fondale / e là ride beata”, p. 65).
Privi delle credenze che li sostenevano, i miti si palesano come fantasmi morti, fantocci, statue mutile e da collocare stotto lo stemma di qualche museo e nientaltro: per quel che pertiene la co(s)mica sventura umana ormai possono ben poco, se non con ignomili e mentite gherminelle.
Data recensione: 01/01/2006
Testata Giornalistica: Fermenti
Autore: Donato Di Stasi