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Richiamato esplicitamente nell’introduzione, il ‘sogno’ di ispirazione letteraria di trasformare una casa prestigiosa nell’io narrante di una storia plurisecolare sostiene altrettanto efficacemente

Richiamato esplicitamente nell’introduzione, il ‘sogno’ di ispirazione letteraria di trasformare una casa prestigiosa nell’io narrante di una storia plurisecolare sostiene altrettanto efficacemente l’ispirazione storiografica del volume Palazzo Datini a Prato. Una casa fatta per durare mille anni. L’opera, realizzata dopo lunga gestazione grazie alle cure di Diana Toccafondi e Jérôme Hayez, e al coordinamento editoriale di Maria Raffaella de Gramatica, si offre al lettore imponente nella costruzione, articolata in due tomi, uno dedicato a saggi di approfondimento tematico l’altro all’edizione di documenti, stampati nell’elegante formato dell’edizione d’arte Rispetto all’ipotetico modello del palazzo gentilizio, custode e simbolo della vita plurisecolare dei casati, Palazzo Datini presenta delle significative particolarità: da sogno di un ricco mercante rientrato nella città natale dopo una lunga e fortuna esperienza a Avignone, con la morte senza eredi di Francesco di Marco l’edificio si fa espressione non della storia dei discendenti e della memoria degli antenati ma delle istituzioni cittadine che lo ricevettero in eredità. Vennero allora mutando le funzioni del palazzo, in funzione delle istituzioni ospitate e delle loro finalità, orientate non solo in direzione del contesto sociale pratese, cioè di un agglomerato urbano dotato di fatto della forza e dell’identità cittadina senza possederne i crismi, ma verso quello ben più ampio dell’intero Stato mediceo. Merito principale, anche se non certo unico, di questo libro, è infatti quello di aver operato una dilatazione dell’interesse per la figura di Francesco di Marco Datini ben oltre l’immagine del mercante di Prato, artefice, protagonista e custode di uno straordinario se non unico fondo di lettere commerciali e familiari scritte tra la metà del Trecento e i primi anni del Quattrocento. La casa di Francesco di Marco viene quindi letta e decifrata come spazio di dimora e di lavoro, espressione di un’idea della sicurezza, del comfort e del futuro della propria vita e della propria famiglia nucleare, ma anche come collettore di significati più complessi, inerenti la sfera dei servitori, dei dipendenti, degli amici, dei ruoli domestici. Ma anche come specchio delle diverse istituzioni che vi ebbero e vi trovano a tutt’oggi sede: come dall’ente assistenziale del Ceppo Nuovo, poi Pia Casa dei Ceppi, oggi Fondazione Casa Pia dei Ceppi, fino l’Archivio di Stato di Prato, che ha trovato nelle stanze di Francesco di Marco una sede di rara bellezza e di straordinaria simbolicità nella congiunzione tra passato architettonico, presente istituzionale e futuro della ricerca storica. Il volume si segnala anche per il solido impianto progettuale che ne ha sostenuta la lunga e meticolosa gestazione, frutto di uno sforzo collettivo che ha impegnato i curatori, un numeroso gruppo di collaboratori, nonché alcuni esperti che, pur non redigendo contributi specifici, hanno messo a disposizione le loro competenze linguistiche, storiche e archivistiche per la realizzazione di un’opera ponderosa: Pär Larson (Opera del Vocabolario Italiano), Margaret Haines, Carlo Benedetti, Christine Martella, Jean-Manuel Picasso e les Archives départimental de Vaucluse, assieme a diverse altre istituzioni e professionità (cfr. pp. xv-xvi). Oltre alle tre presentazioni di Lorenzo Lapi, Anna Beltrame e Raffaella de Gramatica, il primo tomo del volume, dedicato agli approfondimenti dei temi storici artistici connessi all’immobile, si arricchisce dell’Introduzione di Hayez e Toccafondi e dei saggi di venticinque autori. La parte prima del medesimo tomo (Da abitazione privata a sede della Casa Pia dei Ceppi), privilegia la nascita dell’edificio in una prospettiva di storia dell’architettura. Vi afferiscono i saggi di Cerretelli, Bernardi e Preyer che indagano l’immagine e i significati del progetto del Palazzo Datini non meno delle fasi ideali e materiali della sua costruzione iniziata dal capomastro Lapo Martini. La ricerca di Philippe Bernardi si focalizza sugli aspetti materiali della costruzione dell’edificio e l’organizzazione di un cantiere medievale, riletta con ricchi contrappunti documentari. Brenda Preyer è autrice invece di un interessante raffronto tra l’esperienza progettuale di Francesco di Marco e quella dei patrizi di Firenze, il ceto dirigente della città egemone, dove Francesco possedeva una seconda casa d’abitazione. Dal confronto delle diverse strutture abitative sono soprattutto le differenze a emergere, piuttosto che le analogie. Rispetto agli edifici fiorentini trecenteschi e proto quattrocenteschi, il palazzo pratese mostra un profilo architettonico diverso a partire dalla progettazione dell’altezza, che procede per due soli piani, attuando una soluzione innovativa per l’epoca. Copre inoltre una superficie più piccola, e si caratterizza soprattutto all’esterno con un intonaco decorato che sembra in genere mancare a Firenze (dove comunque la soluzione della parete dipinta non fu del tutto assente). La sottosezione intitolata La casa dipinta riserva ampio spazio all’analisi dell’iconografia voluta da Francesco di Marco, dei cicli pittorici presenti nel palazzo, dei pittori e dipintori commissionati dal Datini, allo studio del significato dei temi (ciclo degli Uomini e donne famose), dei simboli e dei colori utilizzati. Si trattò di un progetto di importanza assoluta per il mercato di artisti, artigiani e manifattori del contesto pratese, capace di sostenere da solo la committenza di un’intera generazione di pittori con i relativi collaboratori (Maria Pia Mannini), e di uno stuolo di artigiani qualificati, la cui attività trova ulteriore approfondimento nella ricca campionatura di conti loro intestati riportati nell’appendice documentaria del secondo tomo, curato da Elena Cecchi Aste, Chiara Marcheschi, Margherita Romagnoli e lo stesso Hayez. Margherita Romagnoli, autrice di due contributi, scandisce le diverse vicende della decorazione pittorica interna del palazzo e degli artisti e artigiani che vi furono coinvolti, così come quella degli ambienti esterni (Gli ambienti esterni. Proposte per una lettura iconografica). Ne emerge la straordinaria ricchezza delle proposte iconografiche, accolte o respinte, dei costi richiesti dall’eventuali soluzioni cromatiche, dell’arruolamento di certi dipintori piuttosto che altri, al di sotto dell’eccellenza del nome di Niccolò di Piero Gerini, autore del ciclo degli uomini illustri, o di Tommaso del Mazza. Cristina Gnoni Maverelli concentra invece la propria attenzione sulla decorazione pittorica delle stanze a pianterreno, stabilendo anche in questo caso dei preziosi raffronti con le pitture coeve di Palazzo Davanzati, delle case dei Cerchi, dei Peruzzi e di altri notabili fiorentini, mentre il ciclo pittorico esterno, fatto eseguire dai primi rettori del Ceppo di Prato, con scene della vita del munifico fondatore Francesco è al centro del saggio di Philine Helas. Nella terza sottosezione della prima parte (Il palazzo al centro di una vita) prevale la prospettiva storica e istituzionale centrata sulla figura di Francesco di Marco, sul suo palazzo e sulle istituzioni assistenziali che da lui promanarono. Hayez rimarca la dimensione internazionale dell’esperienza di Francesco, che di fatto vive materialmente in una dimensione internazionale la prima parte della vita, e che anche col trasferimento a Prato prosegue per lettera, commerciale o meno, questo sistema di relazioni ad ampio raggio. Col ritorno nella città natale la documentazione mette in primo piano l’importanza della casa come palazzo e come focolare domestico, dove le donne ritrovano appieno una dimensione di rilevanza assoluta. Così accade nel saggio di Chiara Marcheschi («In Prato chon XXIII bocche in casa». Le donne della “famiglia domestica” di Francesco e Margherita Datini), che assieme al contributo di Claudio Paolini dedicato ai mobili alle masserizie e alle cose descritte negli inventari delle case, offre interessanti spunti allo studio della cultura materiale e della mentalità quotidiana di un mercante del tardo Trecento e del suo contesto relazionale. La più importante fra queste ‘cose’ fu senz’altro l’archivio eponimo, adesso disponibile on line, che costituisce lo straordinario strumento storiografico a disposizione degli studiosi, in grado di rendere conto dell’eccezionalità biografica dell’uomo, e i tanti significati assunti dalle sue attività, decisioni, clientele e rapporti (Diana Toccafondi). Nella seconda parte del primo tomo (Le trasformazioni funzionali e architettoniche dal XV al XXI secolo …) il fuoco dell’attenzione converge verso quelle che furono gli importantissimi cambiamenti funzionali del palazzo dal Quattrocento ai nostri giorni, segnati dalla natura assistenziale del Ceppo Datini poi Pia casa dei Ceppi, e dallo stabilimento dell’Archivio di Stato di Prato nell’antica dimora datiniana. Giuliano Pinto inquadra con pochi essenziali riferimenti la funzione e il significato dell’erezione del Ceppo dei poveri a sostegno di bisogni che il preesistente Ceppo vecchio faceva fatica a soddisfare. Veronica Vestri (Per una storia istituzionale della Casa Pia dei ceppi tra i secoli XIV e XIX), approfondisce la storia delle istituzioni assistenziali ospitate nel Palazzo prendendo avvio dalla decisione testamentaria del Datini di stabilire la sede dell’Opera Pia nella propria casa, lasciando ad essa tutti i propri beni. Da allora la biografia del mercante, a causa dell’assenza di discendenti, lascia il posto al mondo complesso e per altri versi rilevatore degli enti assistenziali, su cui ancora molto resta da indagare. Dalla metà del Quattrocento Palazzo Datini lascia il posto alla Pia Casa dei Ceppi, prodotto dell’evoluzione del Ceppo Vecchio, Ceppo Nuovo di Francesco di Marco Datini, poi Ceppi Riuniti (infine Azienda Casa Pia dei Ceppi e oggi Fondazione Casa Pia de’ Ceppi). Nella mutata prospettiva storiografica offerta dalla trasformazione del palazzo, sulla scorta degli studi di Enrico Stumpo e di Andrea Menzione, che hanno indicato ma non esaurito le tante prospettive offerte dal campo d’indagine, il saggio della Vestri non solo riflette sulla mutata identità del palazzo divenuto sede di un’importante istituzione assistenziale, ma sposta in avanti nel tempo l’analisi del complicato e cruciale sistema di rapporti che lega i Ceppi Riuniti alla comunità pratese, delineando sul lungo periodo come le funzioni istituzionali della casa tendono a trasformarsi in quelle di un vero e proprio istituto di credito e speculazione. La stessa composizione patrimoniale dei Ceppi andò mutando durante l’età medicea, quando nel 1553 si registrò un chiaro spostamento verso la proprietà immobiliare urbana, che configurava una specie di quartiere cittadino pertinente ai Ceppi, mentre la proprietà rurale venne sottoposta ad accorpamento in grossi nuclei poderali, e l’acquisizione di aree prative per la produzione di fieno che ancora nel Settecento costituiranno un’entrata di assoluto rilievo per l’ente (p. 274). Grazie alla loro robustezza economica i Ceppi svolsero una forte attività di sostegno alle esigenze della comunità, soprattutto negli anni della Peste 1629-31, quando si chiese loro contributi da destinare ad altri e diversi enti assistenziali (p. 279). Dal governo fiorentino furono coinvolti anche nella tassazione per il restauro della fortezza di Prato destinata a ospitare le truppe spagnole (1634), mentre un ruolo altrettanto importante fu svolto dai Ceppi nell’erogazione di sussidi a favore di Chiese e monasteri, oltre alla gestione di servizi di welfare: l’erogazione di doti, il mantenimento di studenti, l’officiatura di messe di suffragio. Nel corso dell’età medicea la solidità economica dei Ceppi poté misurarsi su scala territoriale più ampia, soprattutto nelle iniziative finanziarie condotte fuori dalla terra di Prato, ad esempio con gli investimenti immobiliari operati a Livorno: tra il 1593 e il 1630 vennero utilizzati oltre 100.000 scudi in edifici eretti ex novo. Sotto Ferdinando I, ad esempio, i Ceppi acquistarono 33 case a Livorno sulla centrale Via Ferdinanda, per 15.000 scudi, impegnandosi nella loro miglioria. Gli utili di queste case venivano divisi fra i Nove i Ceppi, che così potevano utilizzare queste entrate nel contesto cittadino pratese. Nel frattempo non solo l’istituto nelle sue attività ma anche l’immobile continuava a subire trasformazioni, col rialzamento del tetto e la costruzione della loggia (1619), con la realizzazione delle buche del grano nel 1625 e il restauro dello scrittoio e della stanza dell’udienza tra il 1627 e il 1628 (Francesca Carrara). Una vicenda lunghissima, quella della Pia Casa, che assume nuovi connotati di tesoro documentario a partire dal 1880, quando Cesare Guasti pubblicò le lettere di ser Lapo Mazzei, il notaio di fiducia del Datini, in occasione del riordino dell’archivio affidato all’arcidiacono Martino Benelli. In anni più vicini a noi, il restauro realizzato sotto la guida dell’architetto Bemporad tra il 1954 e il 1958, ha costituito un ulteriore strumento d’indagine e di scoperta oltre che di tutela, come appare dai contributi di Lia Pescatori, Cristina Gnoni Mavarelli, Francesca Piqué e Svitlana Claudia Hluvko, Cecilia Frosinini, Michela Piccolo. L’ultima sottosezione (Nuove funzioni: l’Archivio e il Museo), testimonia della pressoché ininterrotta centralità del palazzo nel presente storico della città, in forza di iniziative e decisioni capaci di ottimizzare la struttura dell’immobile e la sua eredità storica. Di questa eredità il cuore resta senz’altro l’archivio di Francesco di Marco, e fu merito di Francesco Badiani aver suggerito fin dal 1914 come all’ottimizzazione degli spazi interni dell’edificio potesse agganciarsi una nuova funzionalità nella conservazione delle carte Datini e di quelle di altri enti della comunità pratese, in primo luogo l’Archivio Storico del Comune (de Gramatica). Nel 1939 si ha l’istituzione della sottosezione pratese dell’Archivio di Stato di Firenze che nel 1997, con la nascita della Provincia di Prato, diventa sede autonoma di Archivio di Stato (decreto del Ministero dei Beni culturali e ambientali del 24 maggio) sotto la direzione di Diana Toccafondi. Nel 2009 il patrimonio di oggetti, arredi e spazi della Casa Pia dei Ceppi, è stato accolto e organizzato nel Museo Casa Francesco Datini (Gabriele Ciolini). Gli storici e i lettori più esigenti troveranno ulteriori chiavi di accesso ad una materia storica peraltro sviluppata secondo prospettive interessanti e diverse nei preziosi e ben curati indici dei nomi e dei luoghi che chiudono il secondo tomo, dedicato ad un’ampia e significativa selezione dei documenti utilizzati nei diversi saggi.
Data recensione: 01/10/2015
Testata Giornalistica: Archivio Storico Italiano
Autore: Stefano Calonaci