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Un centinaio di pagine, nemmeno, come catalogo di una mostra durata quattro mesi e capace di coinvolgere una trentina di studiosi

Un centinaio di pagine, nemmeno, come catalogo di una mostra durata quattro mesi e capace di coinvolgere una trentina di studiosi sotto l’egida del Kunsthistoriches Institut in Florenz «Max Planck» e dell’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze, per le cure specifiche di Mario Ruffini e Max Seidel, con la partecipazione fondamentale della famiglia Colacicchi. Sono ventiquattro i dipinti riprodotti, sulle pagine dispari del volumetto a lato delle quali stanno altrettanti brevi commenti, vere chiose a firma di altrettanti studiosi. Ma il libro il suo nobile oggetto lo vuole anche raccontare, non solo, e propriamente, illustrare; e alle parole di critica dedica un terzo del suo ammontare. Comincia Flavia Arlotta stessa, alludendo alla felicissima infanzia vissuta a Sorrento con un padre letterato e lettore onnivoro, agli studi classici interrotti dalla passione per la pittura, al trasferimento a Firenze, alla fatale conoscenza di Giovanni Colacicchi compagno, marito, ispiratore, collega insostituibile. Allusioni, dunque, brevi schizzi d’acquerello passati a una scrittura che diventa più accorata quando tocca la guerra e più commossa quanto perviene ai figli, alle conoscenze, a qualche tratto di poetica. «Sono ormai all’opposto di Corot, che amava (perché lo poteva praticamente) mantenere fino alla fine di un quadro l’emozione iniziale. La mia tattica è diventata invece quella di superare lo spasmodico amore, dopo di averlo «inghiottito», e poi dipingere quasi con distacco. Lasciarsi un po’ andare alle leggi richieste dal quadro stesso; tutto sta a capirle e seguirle». Questa bozza autobiografica data al 1979; e se pure, nella sua umanissima semplicità, avesse bisogno di chiarimenti, ecco la «cronologia di una esistenza speciale vissuta insieme a Giovanni» scritta da Mario Ruffini, che narra la lunga vita (1913-2010) per segmenti cronologici, con piccoli riquadri di fotografie, in assidua relazione con la vecchia Firenze del pieno Novecento popolata da Guttuso, Trombadori, Cagli, Cavalli, De Libero, Morante, Montale, Dallapiccola. Giovanni «avanza di getto, rapido, e con un pensiero geometrico e razionale che organizza la sua tela», mentre Flavia «lavora lentamente. Il suo pensiero vuole sedimentarsi come il suo colore vuole asciugarsi», grazie a una luce «diffusa, morbida, conseguenza di una pittura che nasce appunto con tempi lunghi, una pittura interiore, intima». L’ultimo dipinto di Flavia, Profilo di Luigi Dallapiccola, è del 2005, ed è l’ultimo in un ambito già molto diradato, sempre meno interessato a mostre, «vedovo» in ogni senso dell’adorato Giovanni (scomparso nel 1992 dopo sessant’anni di unione e sodalizio). E lo stesso «profilo» nasce, quasi per gemmazione spontanea, da due profili che del musicista amico Giovanni aveva effettuato alla fine degli anni Quaranta. Il catalogo comincia con I rosolacci del 1934, che reca una scheda di Giorgio Bonsanti: Flavia era la migliore amica di sua madre, Marcella Del Valle, e forse per questo, chiede l’insigne scrittore e intellettuale, si deve sentire meno in grado di capire e commentare? No, anzi sapendo descrivere a meraviglia una natura morta dall’«atmosfera che vediamo quando da dentro una casa toscana si guarda fuori», trasparente di luce eppure reale di consistenza. Se un «armonioso lessico familiare» parla Il campo degli Hildebrand a San Francesco di Paola, l’Omaggio a Giovanni. Vallombrosa è lo specchio del rapporto fra i due artisti sposati: non sdolcinato, ma affettuoso, sincero, e sempre allegro. A fatica recuperato dal rifiuto dell’autrice (che proprio cercò di distruggerlo), Duniascia è il ritratto della tata russa della famiglia: Piero Colacicchi, il figlio di Flavia e Giovanni, ne trae pretesto e asserisce che «per mamma la prospettiva era un impaccio, un obbligo sintattico a cui si sottoponeva con leggera irritazione». «Circondata da un sentimento di confidenza e di amicizia» si diceva Elsa Morante allorché faceva visita alla famiglia, specie in quell’oasi che era il giardino: così figura Il mio giardino del 1979, un giardino-cortile, verde di piante ma anche selciato, non fatto poetico da chissà cosa ma rimasto semplice, quotidiano, da vivere più che ammirare. Del resto una «compostezza [che] non ha nulla della posa», un «silenzioso lievito interno», una forma di «rinnovato stilnovismo» emana secondo Susanna Ragioneri il bellissimo Ritratto di Flavia Arlotta che campeggia nella copertina, opera di Giovanni Colacicchi: colorito, rosso di labbra e anche di collana, scuro e luminoso di occhi, appena marezzato di capigliatura, leggermente assorto d’espressione, è vagamente orientaleggiante, si direbbe assiro-egizio, da antica principessa che non ha più nessuna intenzione di sembrare scostantemente semidivina. Davvero la Arlotta è stata rara «donna e pittrice del ’900».
Data recensione: 01/10/2014
Testata Giornalistica: Nuova Informazione Bibliografica
Autore: Piero Mioli