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Dagli esordi nel giro delle Giubbe Rosse alla nascita di Solaria, dall’incontro con de Chirico e la scoperta del Sud Africa, dalle Biennali di Venezia

Dagli esordi nel giro delle Giubbe Rosse alla nascita di Solaria, dall’incontro con de Chirico e la scoperta del Sud Africa, dalle Biennali di Venezia alle amicizie con Berenson e Guttuso, Giovanni Colacicchi (1900-1992) ha attraversato il Novecento come artista, teorico e democratico autentico, restando sempre molto legato — lui laziale di nascita poi vissuto in Calabria e a Roma — a Firenze dove s’era formato. Una pittura trasversale ai generi la sua, che sintetizza paesaggio, natura morta, figura e mito. Alla quale rende omaggio da domani al 19ottobre a Villa Bardini Figure di ritmo e di luce nella Firenze del ’900, curata da Susanna Ragionieri e MarioRuffini. Pubblichiamo un suo ritratto firmato dal figlio Francesco Colacicchi.

«Presto ho capito che così non era, ma pazienza, dipingo io e son convinto che non sia tanto importante essere bravissimi, quanto, nel mio caso, riuscire, con la tecnica di mio padre, anzi con una tecnica molto più limitata della sua, a dipingere rappresentando tutto me stesso, tutta la mia umanità. Non seguo le mode. Mio padre le mode non le ha seguite di certo. Aveva un dono naturale per la scrittura, per la poesia, per il cantare, non per disegnare e dipingere e solo con anni di fatica e lavoro ha raggiunto la capacità tecnica e la maturità di artista che possiamo ammirare. Nella sua pittura chi ha occhi per vedere può, secondo me, sentire che era un uomo buono, generoso, allegro. In una parola l’uomo più solare che si possa immaginare e mentre dipingeva amava cantare, spesso stornelli ciociari a volte leggermente osceni. Da giovane gli capitò nello studio una bella signora che comprò, senza discutere il prezzo, un bel nudo femminile. Quando mio padre per consegnare il quadro prese una carrozza capì presto perché il cocchiere aveva fatto una risatina appena sentito l’indirizzo. L’indirizzo era quello di un noto bordello di lusso dove con allegria fu accolto, e invitato a tornare, da tante belle ragazze. Quando chiesi a mio padre se c’era tornato non mi rispose ma fece un vago segno di superiorità. Roberto, padre di mio padre, era figlio di Pietro Colacicchi e di Germana Caetani ed era un piccolo possidente di terreni agricoli di Anagni e presidente della Società Operaia. I contadini anni fa ancora lo ricordavano come «un gran signore » eppure quando scriveva a mio padre, che a sedici anni viveva a Firenze per studiare, gli raccomandava di mangiar poco la sera per risparmiare i soldi necessari a farsi risuolare le scarpe e lo pregava di comportarsi bene agli Scolopi dove per guadagnare qualcosa faceva l’istitutore a ragazzi più giovani di lui. A ventiquattro anni scrive sulla Rivista di Firenze, a ventisei su Solaria, riviste certo non vicine al fascismo. Non uno dei suoi quadri è firmato con la data usata dal regime. Lui e i suoi amici erano tutti non fascisti. Gli antifascisti o erano in prigione o in Francia o più tardi a combattere in Spagna. Conservo la sua tessera del Pnf del 1933. Sul retro della busta dove la teneva mio padre scrisse «la decisione di iscrivermi nel ‘33 (o piuttosto di non rifiutare di essere iscritti perché combattenti nella guerra del ’15-’18) fu presa con molti altri anche per il consiglio di Croce che pensava che non fosse possibile distruggere il fascismo se non dal di dentro». Col senno di poi credo che Croce sbagliasse, ma Croce non era indovino e neanche lui poteva prevedere una guerra con l’Italia alleata di quella Germania. Tanto è stato scritto sul fascismo, ma credo sia ancora difficile per molti avere un’idea chiara di come fosse articolata e complessa la società di allora ed è ben logica la domanda che tanti anni fa uno studente dell’Accademia di Belle Arti fece a mio fratello, anche lui studente: “Come fai a dire che tuo padre non era fascista se durante il fascismo ha fatto lavori per edifici pubblici come il Tribunale di Milano e la Scuola di Guerra Aerea a Firenze?”. Non so cosa mio fratello rispose, ma io avrei detto: “Secondo te era fascista un professore di legge che durante il fascismo collaborò alla stesura dei Codici e fu nominato Rettore nel 1943?”. Certamente la risposta del compagno di mio fratello sarebbe stata “sì, era fascista”. Eppure quell’uomo era Piero Calamandrei. Il suo diario (1939-1945) è illuminante per capire la società italiana di quell’epoca. In questi ultimi anni varie mostre ci sono state sulla pittura e la scultura degli anni del fascismo, ma per quello che io ho potuto vedere non è mai stato sufficientemente fatto notare che il fascismo non ha imposto uno stile agli artisti, come viceversa successe in Germania o in Russia. Durante il ventennio nessuno disturbava i futuristi, e sarebbe stato comico, vista la loro ideologia di «guerra igiene del mondo». Comunque, in generale nessuno imponeva uno stile di regime ai pittori e agli scultori. Mio padre non amava le dittature e quando l’amico Renato Guttuso, che pur stimava, dopo la guerra gli propose di iscriversi al partito comunista gli rispose che mai l’avrebbe fatto e i fatti d’Ungheria confermarono le sue opinioni. Ricordo mio padre come uomo ottimista che sapeva vivere nel presente e che, aspettando un treno, poteva aprire la cassetta dei colori e mettersi a dipingere, dimenticando quello che aveva fatto e quello che doveva fare, con quella rara capacità di concentrazione che gli inglesi, riprendendo idee orientali, chiamano mindfulness. Nonostante guerre e guerre civili e le difficoltà della vita, nelle sue opere ha mantenuto sempre una grande coerenza come uomo e come artista, dipingendo fino a novantadue anni in una lenta e naturale evoluzione e facendo, fino all’ultimo, dei gran bei quadri.»
Data recensione: 17/04/2014
Testata Giornalistica: La Repubblica
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