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Era nato, nel 1917, in una casa torre all’angolo fra Borgo San Jacopo e via Guicciardini. È morto dieci anni fa in un panoramico appartamento

Era nato, nel 1917, in una casa torre all’angolo fra Borgo San Jacopo e via Guicciardini. È morto dieci anni fa in un panoramico appartamento di via Foscolo, presso Bellosguardo. E come pochi altri artisti del ‘900 ha saputo far conoscere al mondo la sua città. A differenza della madre, il cui motto era I record only the sunny hours, David Lees raccontò Firenze dopo il diluvio.
Le sue foto del patrimonio artistico alluvionato fecero il giro del mondo innescando una gara di solidarietà per la città sommersa dal fango. Sua madre si chiamava Dorothy Nevile Lees ed era nata nel 1880 da una famiglia della borghesia vittoriana. Figlia della grande stagione preraffaelita, era arrivata a Firenze al termine del grand tour per l’Europa e aveva deciso di rimanervi per sempre. Ma disprezzava troppo «i discepoli col fiato mozzo di Cook e Baedeker, che vedono molto ma sentono poco», per contentarsi di una banale camera con vista come nel romanzo di Forster. Dopo qualche anno di ambientamento nella vitale colonia anglobecera prese dimora all’ultimo piano di una casa torre. Nello splendido isolamento della tower with a wew componeva poesie, dipingeva acquarelli, scriveva bozzetti che erano – come li definì sir Harold Acton – autentici «acquarelli in prosa».
Scritti e dipinti attrassero su di lei l’interesse di Edward Gordon Craig. Attore, scenografo, autocratico regista teatrale, reduce da un amore con Isadora Duncan, Craig aveva fondato a Firenze una scuola di teatro all’arena Goldoni e una rivista, The Mask. Dorothy, nell’ambito di una relazione non solo spirituale, ne fu redattrice, animatrice e all’occorrenza finanziatrice, prima che Edward lasciasse per altre nazioni l’Italia di Mussolini, in cui non c’era posto per due dittatori.
Se la rivista fu stampata a Firenze ma scritta in inglese, il figlio nato nel 1918 dalla relazione fu fiorentino a tutti gli effetti. David studiò nelle scuole italiane, si iscrisse alla Rari Nantes praticando il nuoto a livello agonistico, scattò le prime foto con una Kodak Ves Pocket, fu avanguardista sciatore e giovane fascista. A vent’anni – esempio dijus soli ante litteram – scelse l’Italia e partì soldato come alpino.
Tornò sette anni dopo. La torre con vista era crollata sotto le mine tedesche e la madre cercava col borderò degli articoli per il Christian Science Monitor di stiepidire il rigore degli inverni nel nuovo appartamento di via Foscolo. David capì che era il momento di trasformare un hobby in una professione. Dapprima aiutò un fotografo americano di Life devoto più al collo della bottiglia che all’obiettivo, poi si fece strada nella rivista come fotoreporter per l’Europa e il Medio Oriente. In questa «università della fotografia», in cui s’insegnava a «guardare ai grandi, ai potenti, ai poveri, al bene, al male», esplose il suo talento. Mentre la madre continuava il suo lavoro e la sua corrispondenza con Gordon Craig (sarebbero morti entrambi nel 1966, poco prima del 4 novembre), il figlio si trasformava nel testimone di anni straordinari. Sua è la foto dell’abbraccio fra Paolo VI e Athenagora: un Rembrandt, secondo qualcuno, per lo splendido gioco delle luci. Ma suoi sono anche memorabili ritratti di Montale e di Berenson, di Fellini e di Pound, di Gianni Agnelli e di Fiammetta Ferragamo, storici servizi sul Concilio, sul dramma del Vajont e poi dell’Alluvione, in una Firenze dove atterrò in elicottero allo stadio comunale.
La chiusura di Time, nel 1972, segnò la fine di un’epoca. Lees lo capì e si trasferì a Milano, riconvertendosi alla fotografia pubblicitaria. Ma per chi aveva goduto della straordinaria larghezza di mezzi del gruppo di Henry Luce non era la stessa cosa. Negli anni Ottanta fece ritorno a Firenze, nella casa materna. Chi scrive lo conobbe nel 1987 quando fu inaugurata la mostra che il British aveva organizzato in memoria di Dorothy, alla presenza di Harold Acton, elegante come può esserlo solo un lord inglese in un paio di pantaloni che gli arrivavano a metà polpaccio.
Lees era un simpatico bohémien sulla settantina, che amava preparare, come Prezzolini nella sua penthouse di New York, simpatiche cene per una scelta ed eclettica cerchia di amici: storici come Gianfranco Pedullà e Gianni Isola, studiosi di suo padre, attrici, nobildonne. Aveva un vero culto della madre, al punto da adombrarsi se in un articolo si accennava alla sua nascita illegittima (ma era duro spiegare ai lettori che le figlie dell’Inghilterra vittoriana si riproducessero per partenogenesi...). Talora però affiorava in lui la malinconia di un uomo vedovo del successo, e faceva male vederlo piatire alla vernice di una mostra un catalogo alle signorine degli uffici stampa che non potevano sapere di trovarsi davanti a un ex collega di Cartier Bresson. La grande mostra dedicatagli alle Regie Poste degli Uffizi, pochi giorni prima della morte, lo risarcì di qualche amarezza. La distratta Firenze si ricordava in ritardo di aver ospitato fra le sue mura il Rembrandt dei fotografi, che anche sotto il diluvio aveva saputo cogliere per la sua città il ritorno del sole.
Data recensione: 14/01/2014
Testata Giornalistica: Corriere fiorentino
Autore: Enrico Nistri