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Inseguendo uno stile di mostre che ci piace perché rimette le opere in giusto dialogo col territorio, ci siamo spinti nella chiantigiana, fin poco fuori Ponte a Ema, all’oratorio dell’Antella.

Inseguendo uno stile di mostre che ci piace perché rimette le opere in giusto dialogo col territorio, ci siamo spinti nella chiantigiana, fin poco fuori Ponte a Ema, all’oratorio dell’Antella. Qui, sotto volte e pareti magicamente affrescate da Spinello Aretino, sono stati radunati, da qualche pieve di campagna e scelti musei toscani, undici dipinti di Francesco Granacci e Giovanni Larciani all’oratorio di Santa Caterina dell’Antella (a cura di Lucia Aquino e Simone Giordani, fino al 12 gennaio, per la valida serie di mostre de ‘La città degli Uffizi’ giunta al suo undicesimo appuntamento, catalogo Polistampa), due pittori di cui ci siamo sempre dichiarati fanatici, per ragioni però distinte - e non solo perché amiamo, banalmente, il Cinquecento fiorentino. Quante volte infatti, all’Accademia, il palone di Granacci con la Madonna in gloria e i quattro Santi, ci ha fatto credere che la bizzarria potesse insinuarsi, nascostissima, sotto le mentite spoglie della maniera più pura e castigata! Questo pittore, che nel secolo dei grandi ha una vicenda tutta sua, è tanto difficile da capire quanto lo è la sua cronologia, fissata su ben poche date certe. In mostra la Sacra Conversazione di Castelfiorentino dà un’idea di come dipingeva dopo il 1517: un’impalcatura ipercorretta ma non rigida stordisce i santi, vivacizza il bambino che scatta fuori dal grembo della mamma, e si smaltisce un citazionismo da testardi: pieghe ancora scultoree (Lorenzo di Credi), facce di persone molto perbene (Fra Bartolomeo), ombreggiature e colori poggiati per freddare entusiasmi (Andrea del Sarto), il tutto entro un’infarinatura austera che resta fondata su quanto appreso in gioventù (Domenico Ghirlandaio) e su quanto si costruisce andando ogni giorno in palestra (Michelangelo). Non si resiste al confrontare subito questa pala con quella di Villamagna, che porta i segni dell’assimilazione di quanto di più nuovo si andava facendo in Firenze verso il 1530: Pontorno, e i suoi contrasti esterni fra chiari e scuri, e i suoi colori acidi. Altra, e scoperta molto più di recente, è la vicenda di Giovanni Larciani, un pittore coniato da Federico Zeri nel 1962, quando lo chiamava il ‘Maestro dei Paesaggi Kress’, e di cui si è trovato il nome negli archivi solo nel 1998. Per avere un’idea della qualità di questo artista, si pensi che in una sua Sacra Famiglia (alla Borghese, ma non in mostra) Longhi vedeva la mano di Rosso Fiorentino. È invece davanti ai nostri occhi la Madonna con Bambino di Arezzo: una liquefazione delle cose ha invaso figure e paesaggi, tutto è trasparente e sciolto, vige una strana armonia cosmica, che lascia credere che il male possa esser padroneggiato; i colori acuti stridono, ma non torcono un capelli a nessuno. Il Larciani ha una cultura che da Zeri in poi si definisce eccentrica, ovvero legata a una linea di pittura fiorentina di inizio Cinquecento - in primis Piero di Cosimo e Rosso Fiorentino - che rompeva l’incantesimo raffaellesco con una smania di impressionismo, con pennellate corsare, con tremolii di mano e di mente. Non è esattamente lo stesso percorso di Granacci, ma siamo contenti tuttavia di vedere accanto questi due pittori, anche perché né l’uno né l’altro ha mai beneficiato di una monografia. E tanto più andrà difeso questo genere di iniziative, perché pochi e sensati spostamenti bastano a costruire una mostra giusta, rispetto a quel abbiamo visto recentemente in città - avevamo chiuso, in un’altra stagione, parlando di una sciagurata Primavera del Rinascimento. Preferiamo l’autunno: il grigio, col verde delle colline, si abbina meglio all’azzurro.
Data recensione: 20/10/2013
Testata Giornalistica: Alias de «Il Manifesto»
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