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Una collezione svela il suo autore quanto l’epoca di entrambi. E oggi, sempre più spesso, le grandi raccolte nate nel secondo Ottocento vengono esposte

Una collezione svela il suo autore quanto l’epoca di entrambi. E oggi, sempre più spesso, le grandi raccolte nate nel secondo Ottocento vengono esposte (gli Impressionisti dei Clark e i Modigliani e Soutine di Netter a Milano, il Medioevo e il Rinascimento di Basilewsky ora a Torino) come chiave di lettura del gusto moderno nato con loro. Negli anni in cui impazza l’eresia impressionista, i colti francesi Édouard André, banchiere frai più potenti e intimo di Napoleone III, e Nélie Jacquemart, ritrattista alla moda del tout Paris di origini però modeste, guardano al passato e all’Italia. Sognano, come gli anglobeceri di Firenze, di tornare a quell’epoca per loro ideale di perfezione. La loro raccolta di Mantegna, Botticelli, Paolo Uccello, Donatello e Signorelli, fra i tanti, prese a formarsi dal 1880 circa, all’unisono col divampare della febbre per la pittura italiana del ’4-500. Geograficamente il cuore di quella passione batteva con Firenze, seguita a un passo da Venezia («disegno fiorentino, colore veneziano» sosteneva Vasari), e poi da Ferrara, Rimini e l’Italia centrale. Su questo percorso si snoda Il Rinascimento da Firenze a Parigi. Andata e ritorno che va in scena (fino 31 dicembre) su un palco che con quella collezione - dal 1913 per testamento dei due formidabile museo statale - ha un rapporto indissolubile: Villa Bardini, oggi in gestione alla Fondazione Bardini e Peyron della fondazione Cassa di risparmio di Firenze che con Institut de France, fondazione Jacquemart-André, Culturespaces, Musei civici di Firenze e Soprintendenza organizza la mostra. In quella sontuosa residenza appoggiata sul colle del Forte Belvedere e circondata da uno splendido giardino all’italiana confinante con Boboli, l’antiquario Stefano Bardini volle la dimora di famiglia. Che, affacciata sul quartiere medievale di San Niccolò, in cui Bardini aveva fatto di Palazzo Mozzi il suo quartier generale con fastoso showroom e laboratori di restauro - dove abbelliva se del caso i pezzi per il non sempre avveduto banchiere o aristocratico di turno, cui offriva anche pacchetti d’arredo chiavi in mano - completava il regno del “principe degli antiquari”. È fra quelle mura, da dove fra un viaggio e l’altro, dirigeva la sua capillare rete di corrispondenti, e che oggi ospitano il Museo comunale Bardini, che nacque di fatto la collezione di cui la mostra presenta 40 opere. Ogni anno dal 1882 al 1893 la coppia si recò in Italia facendo tappa nella Firenze di Horne, Berenson e Loeser, di Stibbert e Ruskin, di Egisto Fabbri, Temple Leader ed altri raffinati, sovente ricchissimi, studiosi e collezionisti per lo più anglosassoni che ne officiavano il culto fra Medio Evo e Rinascimento creandone il mito moderno. Ogni passaggio dei due significava una visita all’atelier Bardini per fare, col favore di una ancora inesistente legislazione unitaria per la tutela dei beni artistici nazionali, i loro favolosi acquisti. Preparati, esigenti, pronti a spendere anche moltissimo ma mai a caso, i coniugi André diedero così forma al sogno: fare del loro magnifico hotel particulier un museo.
Curata da Giovanna Damiani, Marilena Tamassia e Nicolas Sainte Fare Garnot (loro pure i testi in catalogo), la mostra è il "grazie" del museo parigino alla Soprintendenza per il prestito di Beato Angelico del 2012, e si svolge in sei sale tematiche. Percorse dal fil rouge delle attribuzioni: materia per natura spinosa e in costante revisione, sulla quale però Bardini, gran signore, carattere dominante, antiquario colto e dall’occhio eccezionale ma anche spregiudicato uomo d’affari, usava marciare, forte della sua indiscussa autorevolezza, nobilitando, talvolta con una certa disinvoltura, le sue “merci”. Anche coi migliori acquirenti, come Nélie, per la quale la certezza dell’autore era requisito tassativo dell’acquisto. Sono due Donatello ad accendere la prima sala, «All’alba del Rinascimento»: se non v’ha dubbio che la raffinatezza dinamica, l’eleganza prospettica dello “stiacciato”, la preziosa profondità di campo della scena diano per certo che la placchetta del San Sebastiano sia del campione artistico della Repubblica, è invece ancora da decidere in via definitiva se lo sia anche il pur bellissimo busto di Ludovico Gonzaga, la cui paternità gli vien contesa, secondo gli studiosi, dall’Alberti. Per via della sua rarefatta astrazione è stato a lungo attribuito a Piero il Ritratto di donna di profilo in effigie alla mostra: è invece ormai certo che sia dello Scheggia, il fratello di Masaccio, autore anche del desco da parto - i vassoi per le vivande per le ricche partorienti, specialità della sua attiva bottega- che lo affianca. Nella stessa sala brilla per tono favolistico e ardite prospettive il San Giorgio e il drago di Paolo Uccello. Passando per l’ambiente che rievoca il «gusto Bardini» tanto esecrato da Berenson per l’arbitrio, ecco nell’«Affermazione del Rinascimento» l’aggraziata maestà e l’enigmatico paesaggio roccioso dal cielo livido della Madonna col bambino di Alesso Baldovinetti, e due soggetti analoghi più una dinamica Fuga in Egitto che la critica assegna a «Sandro Botticelli e bottega»: l’apporto del maestro è forse limitato al disegno, ma tutti i lavori risuonano della sua malinconica dolcezza. Con l’arcaizzante classicità dell’Ecce Homo dell’ultimo Mantegna, il più toscano fra i grandi veneti (a lungo incerta anche questa attribuzione), la mostra tocca l’apice: l’inquadratura a mezzobusto che pare scaturita da Antonello, la sofferente, antiretorica nobiltà e lo smarrimento composto del Cristo messi a contrasto con la proterva bruttezza dei suoi carnefici recanti i cartigli della condanna, ne fanno un toccante capolavoro d’estremo pathos. E rasserena, dopo una tale esperienza, l’intima, tattile affettuosità della Madonna con Bambino di Cima da Conegliano, che s’illumina dei seducenti colori veneti svolti sul magnifico panneggio, assecondati dall’equilibrio della composizione e dal nordico dettaglio del paesaggio. Nella sala sul «gusto di Nélie», fra oggetti ed arredi che la coppia amava accostare ai capolavori, svetta il dinamismo cromatico, quasi cinematografico, del Trionfo di Lucio Emilio Paolo, cassone del Verrocchio, maestro della prodigiosa bottega che formò Leonardo, Botticelli e Perugino. Preceduti dalla trasognata eleganza del Suonatore di liuto di Francesco Salviati, nella sala finale «Rimini, Ferrara, Italia centrale», s’involano la personalità forte e immaginifica di Luca Signorelli, maestro, come Mantegna, molto amato da Nélie, presente con Madonna col Bambino e due santi, e il finissimo bronzo di Giambologna Ercole e il centauro Nesso col quale la collezionista sforava, in nome del bello, la sua epoca prediletta. Mentre due pregevoli tavole ci ricordano infine il gioco di desiderio e seduzione in cui può cadere vittima anche un conneisseur preparato: gli inusuali cromatismi del fondo oro Due angeli al sepolcro di Cristo di Giovanni Baronzio da Rimini acquistati come un Giotto, ma che Giotto, anche se l’artista da quelle parti fu eccome presente, non era; e il Narciso alla fonte che Nélie acquisì per una Raffaello giovanile, certezza mantenuta fino alla morte mentre, già dal 1897, Berenson dava per certo che così non fosse.
Data recensione: 08/09/2013
Testata Giornalistica: La Repubblica
Autore: Paolo Russo