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«Un luogo dove fosse bello abitare, ma anche un palazzo pubblico aperto alla città e ai suoi visitatori illustri». Diana Toccafondi, già direttrice dell’Archivio di Stato di Prato e attualmente a capo della Soprintendenza Archivistica per la Toscana, “disegna” così Palazzo Datini, uno dei santuari della storia economica mondiale, protagonista dell’opera «Una casa fatta per durare mille anni», edita da Polistampa e scritta a quattro mani con Jérome Hayez. Il libro che sarà presentato domani alle 16.30 a Palazzo Fenzi Marucelli a Firenze è in due volumi: il primo sulla storia del palazzo fino alla sua odierna destinazione di “casa della cultura e della memoria”. Il secondo è dedicato alla trascrizione di documenti per lo più inediti, nei quali hanno voce artigiani, pittori, muratori, e serve, con il fascino dei documenti riprodotti in originale. Come nasce l’idea di questo lungo e certosino lavoro? «È nata da tutto il lavoro di digitalizzazione delle lettere del Datini che ha fornito la possibilità di nuove e più accurate esplorazioni. È stato possibile ricostruire l’intero corpo di documenti che si riferivano alla casa ma anche dal recente restauro del palazzo sono emersi nuovi particolari». Cosa è emerso? «È stata ricostruita l’esatta cronologia degli interventi e si è visto il senso di questa casa, abitazione del mercante ma anche molto altro. Datini voleva che la sua dimora fosse un luogo di rappresentanza della città, il fatto che nasca già come palazzo pubblico lo si vede dagli affreschi che commissionò, il ciclo degli eroi per esempio». Anche da committente fu innovatore? «Più che altro desiderava che fosse bella e funzionale, aveva come modello i palazzi di Avignone, si nota da certi modelli pittorici nella “Stanza dell’uno letto” e i palazzi fiorentini. Non scelse una casa- torre chiusa in se stessa e medievale, ma un luogo “prerinascimentale” con grandi finestre che era anche edificio auto-sufficiente con magazzini di derrate alimentari e uffici. E il grande giardino che ora non c’è più meraviglia tutti». Le lettere scambiate con le maestranze sono uno spaccato umano. «Sì, raccontano la storia reale dei suoi rapporti con il fabbro, con i carpentieri e i muratori che “ammattonano”. La casa fu un cantiere continuo durante tutta la vita del Datini, è lui che decide tutto anche se spesso aggiusta in corso d’opera. Non esiste altrove nemmeno a Firenze un palazzo del ’300 che abbia un lascito documentario così ricco». Non esistono piante però, quelle del libro sono ricostruite? «No, nessun progetto come lo concepiamo noi, non era questo il modo con cui si lavorava allora». La “Stanza d’uno letto” ha una storia particolare? «Quando fu dipinta, a un certo punto la lavorazione si interruppe e non se ne conosceva il perché. Rileggendo le lettere inedite è emerso che Datini era spesso fuori Prato per i suoi commerci e che la moglie Margherita si sentiva male, lamentando il fatto di essersi trovata a fare il “capocantiere”, così Datini fermò bruscamente i lavori. Le maestranze furono mandate via nel periodo di Natale. Fu un atto d’amore». Margherita è dunque presente alle decisioni per la casa? «A decidere è Francesco, ma il fatto che nella stanza principale quella con due “letta” ci sia lo stemma dei Bandini, la famiglia di lei, incrociato con quello del Datini, è simbolo paritario dei due padroni di casa, cosa che all’epoca non era assolutamente usuale».  
Data recensione: 18/04/2013
Testata Giornalistica: La Nazione
Autore: Elena Duranti