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Intanto il personaggio principe, la figura che a vario titolo, e ruolo anche di dramatis persona, più spesso attore solitario che in dialogo o in azione con altri

Intanto il personaggio principe, la figura che a vario titolo, e ruolo anche di dramatis persona, più spesso attore solitario che in dialogo o in azione con altri, abita e anima in qualità ora di regista/operatore, ora di guida/presentatore, infine, e con esplicita presenza scenica, di interprete della pièce, il teatro visionario dove Roberto Giovannelli rappresenta una speciale “recherche per immagini”, come Carlo sisi chiamava la sua iconoteca nell’introduzione a Note turchine (Polistampa 2011) del nostro Autore. si tratta di un uomo della contemporaneità, senza dubbio, e si intenda che egli attraversi il suo e nostro tempo facendosi portatore di tensioni ideali e di riflessioni fondanti che dalle diverse età si riversano e rinnovano i loro contenuti nella nostra, piuttosto che ancorarsi e in breve esaurirsi in una sequenza di eventi o un clima contingenti. del resto, gli atti e le situazioni che egli prefigura in forma di viaggio nel sogno, lo dichiarano uomo improntato a uno stile e a un gusto non effimeri, demodé quanto basta a segnalarsi singolare per rarità ed elezione. Non è possibile omologare a un qualsivoglia standard attuale, quel viandante raccoglitore di polvere di stelle e portatore di città, di specchi d’azzurro, di insegne, emblemi, memorie che, novello leopardiano pastore errante per l’Asia, intesse dialoghi astrali e terreni con le cose e le creature, perché sa che Est anima in rebus, come recita il cartiglio d’un suo dipinto, e l’anima delle cose per lui che ragiona e comunica per immagini, sono i segni e i simulacri che le rivelano. in terra asiatica, appunto, il nostro viandante è andato errando, a interrogare segni testimoni, a raccogliere messaggi d’arte tra le montagne dell’antica, ancora arcaica Armenia e del Nagorno-Karabakh, presso una gente che di sé dice: Noi siamo le nostre montagne. Le montagne che Giovannelli dipinge in forma d’ogiva o di parabola dimezzata, quali simboli figurali del suo Parnaso. Ricordo che non è solo un mito delle origini, ma simbolo vivente per un popolo che ha conosciuto nei secoli la diaspora, il fatto che sulla cima dell’Ararat approdasse, secondo la tradizione biblica, l’arca di Noè salvata dalle acque del diluvio per la rigenerazione delle specie e della famiglia umana. Pagine del “diario” di quel viaggio sono i dipinti qui documentati che sotto l’insegna Et in Armenia ego, approdano sulle balze tufacee e tra le biancane dell’etrusca e romana e medievale e rinascimentale e settecentesca volterra, in visita e alla ricerca di ulteriori, specifiche correlazioni dialogiche, ponti ideali con Luca signorelli, domenico Ghirlandaio, il Rosso Fiorentino della astrale Deposizione dalla Croce e gli altri Maestri della Pinacoteca Civica. Per questa intuitiva e coltivata simpatia colloquiale, il pittore si fa interprete ispirato dei fenomeni che si manifestano nella volta abitata dal cielo alla terra: sono lampi archi scie luminose nelle tenebre; sono cime di rocce giottesche, arche di santi e tavole della legge, case di pittori, tempietti circolari, mirabolanti architetture e altre apparizioni appostate al modo di isole sulle dense nubi o in navigazione nello spazio. Quando il suo sguardo plana dal cielo alla terra, egli è visitatore sensibile e penetrante di edicole votive e case e luoghi delle muse, interlocutore silenzioso delle erme che incontra lungo il cammino. sulla terra il suo sguardo spazia ad abbracciare il “paesaggio” naturale e antropico che tutti li contiene, inglobati e affioranti, i depositi e le impronte del tempo e delle culture, alle quali attinge i motivi formali e figurali di cui alimenta il suo poetico e insieme filologico immaginario. La polivalente figura del giovane uomo che impersona, in piena evidenza, le diverse facies dell’artista, il quale spesso riproduce in autoritratto le proprie sembianze, indossa preferibilmente pantaloni e giacca di foggia direi tardo ottocentesca. Le falde della giacca appaiono mosse, come involate dal vento. Comunque fluidificano, si scuotono, si avvitano nello spazio già quando l’abbigliata figura semplicemente cammina. Basta persino che compia una brusca torsione, che all’improvviso cambi direzione o si impunti arrestandosi, perché il moto interrotto seguiti per inerzia, e si scarichi nei lembi flessuosi del vestito. vero e proprio vettore spaziale, il vestito nel suo insieme assume poi un profilo decisamente aerodinamico, se accade che il nostro personaggio si muova agilmente e ancor più che si metta a correre. e mi piace segnalarlo in corsa sotto le mentite spoglie – peraltro aggiornate al coté tardo ottocentesco di cui si diceva – del pastore Aminta, protagonista in Arcadia d’un “contrasto d’amore” romantico ante litteram. Preso nei lacci dell’insidioso eros e nel travagliato ardore della sua fiamma non placata, Aminta insegue nella ninfa silvia – lei pure indossa un abito retrodatato di eguale, anzi accentuata foggia aerodinamica – il compimento del proprio destino. Che Torquato Tasso volle coronare del lieto fine, come non faranno il Goethe de I dolori del giovane Werther e il Foscolo del Jacopo Ortis, eroi sacrificali antesignani del Romanticismo. A questo proposito, per inciso, non sfuggirà il carattere sostanzialmente romantico del “paesaggio” squadernato e grandioso, sommosso dal vento e attraversato da lampi, per quanto visionario e composto per inserti e trapassi visivi dalle aperture d’ambiente alle proiezioni figurali, in cui si muove e si specchia in contemplazione e in allarme il nostro personaggio. Presupposto e sfondo della favola pastorale del Tasso – e ancor prima di esiodo, di Lucrezio, di ovidio e di virgilio – è la memoria letteraria, la malinconia estetica, la meditazione filosofica intorno alla mitica età dell’oro. Lo spirito della natura, e l’arcana bellezza e perfezione del suo molteplice manifestarsi incarnato dagli dei, pervadeva e governava “le opere e i giorni” dell’uomo nell’aurea aetas. L’idea della perdita dell’innocenza con l’uscita dall’originario stato di natura e l’avanzare della conoscenza, è topos ricorrente nel seguito delle civiltà, dalla cacciata dall’eden dei progenitori mitici alla versione illuminista del “buon selvaggio” contaminato e sacrificato sull’altare delle nuove deità: la scienza e il progresso. Quel mito si rinnova puntualmente di fase in fase dei processi civilizzatori, alla frizione critica e agli snodi tra le antiche stagioni in decadenza e le nuove che si schiudono ad altri orizzonti culturali e artistici. il cavalletto che sovente Giovannelli colloca nel bel mezzo della scena e mostra di volta in volta un dipinto in corso d’opera del suo repertorio mitografico, storico-artistico, favolistico, letterario, intimistico, è un ponte gettato tra la terra e il cielo. su quel ponte si può dire meraforicamente che il pittore celebra il rito del transito dalla dimensione fisica della realtà alla dimensione metafisica, comunque all’astrazione simbolica dei simulacri, riduzioni all’essenza formale delle cose. e per compiere quella liturgia permutatrice, egli agisce sui codici linguistici e le convenzioni rappresentative fissati dalla tradizione, li assume e li traduce nei codici e nelle convenzioni che gli appartengono in quanto artista creatore di linguaggio e uomo del suo tempo. Giovannelli non contesta e non stravolge i codici della tradizione, e diciamo pure i canoni accademici, relativi alle tipologia delle arti e dei generi e relativi processi formatori, che anzi indaga e interiorizza anche come studioso e storico specialmente interessato all’arte e alla letteratura artistica tra sette e ottocento. Non li stravolge ma li “traduce”, il che significa che li “tradisce” per ri-crearli. e se la pratica della citazione lo ha fatto in qualche modo partecipe di un clima che negli anni settanta e ottanta ha guardato al museo per trarne ispirazione e modelli stilistici sotto specie di Citazionismo, Nuova Maniera, ipermanierismo, Anacronismo e altro, bisogna dire che egli ha avuto un percorso parallelo e autonomo di rivisitazione e appropriazione estrapolata non già di modelli, ma di brani e reperti evocativi da rilanciare quali componenti morfologiche e figurali del proprio linguaggio pittico. Con la messa in scena del suo visibile parlare all’insegna dell’ut pictura poesis, Giovannelli punta lo sguardo e la mente a una vagheggiata isola o montagna o regione consacrata all’arte, alla sua mitografia e alla sua storia. si chiamerà Arcadia, Parnaso, Ararat, o altra denominazione ed equivalente destinazione utopica, ed è la spiaggia, la fonte, la cima montana sulla quale il pittore sogna di depositare l’arca della propria casa. Quei luoghi consacrati e i loro portati li prefigura in icona. Ma quando la scorgerà di lontano l’isola del suo destino, e infine idealmente vi approderà, scoprirà che la terra promessa è migrata altrove. Come esplorando un sito archeologico, del precedente insediamento l’artista scorgerà sul terreno i reperti, le già fastose vestigia, le consunte spoglie. sui quali si soffermerà a meditare, e certo gli suggeriranno un memento circa la caducità del tempo e dell’opera umana, le leopardiane “magnifiche sorti e progressive”, sotto lo sguardo estraneo di mater natura. Ma la struggente bellezza di quelle sparse testimonianze sarà per lui anche il trampolino per riprendere da quel punto il viaggio/sogno. da alunno della poesia, i segni depositati nei luoghi delle civiltà di volta in volta incrociate, gli sveleranno mondi sommersi, altri sottili trame di segni transitivi, altre corrispondenze analogiche di sensi poetici. dunque nuovi itinerari. Et in Arcadia ego, l’adagio già topico della malinconia del viaggiatore neoclassico, sulle arcaiche tracce armene dell’arca nell’Ararat, le chiese bizantine e gli affreschi o brani di intonaci affrescati, le pietre scolpite disseminate nei siti e quelle inglobate negli edifici diventa Et in Armenia ego e induce Giovannelli non solo a dipingere memorie e sviluppi immaginativi del viaggio e di quelle tracce e depositi, ma a progettare interventi mirati, a disseminare propri segni e tracce e icone in luoghi ed edifici violentati dalla guerra nella città di shoushy, come ideali suture e anelli e ponti per rinnovare il colloquio e la circolazione dell’arte quale condizione di ripresa e apertura moderna alla civiltà. Per avviarci a concludere la nostra visita al teatro visionario di Roberto Giovannelli, tornerei all’osservazione d’apertura circa la tipologia dell’abito indossato dal nostro pittore in funzione formale e semantica. Questa volta il viaggio lo affronterà in jeans e camicia leggera gusto anni sessanta; oppure, ancora retrodatando, sui pantaloni moderni porterà un camicione alquanto animato di plastiche pieghe e volute persino ridondanti, da panneggio barocco mirato a enfatizzare e rendere visionario il percorso della forma nello spazio. siffatti abbigliamenti non sono pura tappezzeria vestiaria e modistica, ma svolgono una precisa funzione formatrice nell’economia dell’opera. Nel laboratorio della mente prima che in quello pittorico, Giovannelli concepisce le figure quali corpi ignudi per i quali studia i modelli e taglia e cuce addosso gli abiti confacenti. Non di rado lascia visibili sotto il simulacro dell’abito, come radiografando sinopie o spolveri d’affresco (i disegni originanti e direi la struttura della forma pittorica), tracce o parti più o meno estese del disegno sottostante, sicché la vestizione del corpo con il suo doppio sartoriale connotato come abito di scena e simulacro sostitutivo, diviene un’investitura al ruolo assegnato in funzione formale e simbolica. Già dai tre casi illustrati emergerà la stretta correlazione tra le posture dei corpi, gli abiti che per linee-forza e andamenti ne sottolineano e ne amplificano i movimenti, l’orientamento e i ritmi dei segni, delle linee, delle tessiture, dei nuclei e inserti e sviluppi figurali nella dinamica complessiva della partitura. Parte dunque integrante, anzi motore in potenza e in atto dell’azione drammatica, il nostro personaggio ora osserva con diversi atteggiamenti e posture, ora attraversa, ora mostra e anima, indicandola e segnandola con il dito inseminatore, la molteplice e mutabile scena nella quale il sogno dell’artista si manifesta e si rivela, come tutti i sogni, per immagini o quadri d’una rappresentazione. Lo spirito che muove il visibile parlare di Giovannelli è la rivisitazione di momenti ed eventi, luoghi e presenze della storia dell’arte e della letteratura stratificati e intersecati nella sua memoria, dunque nel laboratorio ove egli compie l’indagine e la rappresentazione del proprio mondo, prestando quelle figure e metafore del mito al racconto anche della sua storia intima, le sue febbri, i suoi trasalimenti, i suoi stupori. È un processo meta-linguistico che gioca sulla riduzione formale del lessico pittorico a segnali, morfemi, figure emblematiche, infine situazioni da lui esperite. Pedali e volani al racconto, quei lemmi innescano una catena di rimandi testuali e simbolici operati per associazione, analogia, citazione. Giovannelli agisce sullo scrimine ambiguo della simulazione: non mimesi mirata al conforme, ma distorsione dello sguardo, specchio di straniamenti attraverso il quale l’accadimento quotidiano, e il flusso del pensiero, si fanno accensione poetica e deriva visionaria. il tutto entro la “cornice” d’uno spazio o teatro di rappresentazione, e vorrei dirlo schermo proiettivo, conformato a pala d’altare, a predella, a lunetta o sotto specie di tela dal pittore disposta all’aperto, sul cavalletto e in “paesaggi” assai animati e coinvolgenti, essi stessi portatori di inserti visionari. un paesaggio che cielo e terra, e le vicende dell’uomo con le sue “fabbriche” e i suoi portati culturali, include e sommuove in rapinoso circolo cosmico. È un’icona, quel paesaggio, attraversata da lampi, accensioni fumiganti, volute di nuvole, apparizioni o flash di lacerti figurali e frammenti di parole, fasciami di segni ai quali il pittore, da architetto visionario, magicamente impone col gesto della propria mano un ordine che ha la provvisorietà di un’apparizione, ed è la rappresentazione di un momento del flusso di memorie visive che accendono la mente del pittore.
Data recensione: 01/10/2012
Testata Giornalistica: Reality Magazine
Autore: Nicola Micieli