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Nel 2000, Lucia Bertolini riapriva la questione della sequenza da darsi alle redazioni latina e volgare del De pictura albertiano (1435) e, sconvolgendo la cronologia vulgata della doppia redazione

Nel 2000, Lucia Bertolini riapriva la questione della sequenza da darsi alle redazioni latina e volgare del De pictura albertiano (1435) e, sconvolgendo la cronologia vulgata della doppia redazione, affermata già da una rubrica del codice Parigino (testo latino prima, volgarizzamento sussidiario poi), dimostrava che la stessa andava rovesciata a favore del testo volgare, che Alberti avrebbe vòlto in latino solo in seconda battuta. Undici anni dopo, la studiosa fornisce l’edizione critica di quella redazione volgare, celebre per la rivendicazione della « maniera » fiorentina individuata in Brunelleschi, Donatello e altri, ampiamente introdotta e con importanti novità rispetto alla meritoria edizione che Grayson aveva dato dei due testi nel III e ultimo volume delle Opere volgari di Leon Battista Alberti (Bari, Laterza, 1973). Non c’è oggi, dopo la scomparsa di Grayson, miglior conoscitore della tradizione dei testi albertiani di questa studiosa toscana, autrice oltre che di decisivi interventi sull’autore (per un suo « Graecus sapor ». Tramiti di presenze greche in Leon Battista Alberti si veda « BHR » LXI, 1, 1999), della splendida edizione dei testi poetici del « Certame coronario » promosso da Alberti a Firenze nel 1441 (Ferrara, Cosimo Panini Editore, 1993) e dell’importante Censimento dei manoscritti fiorentini delle sue opere, per questa stessa « Edizione nazionale » dello scrittore (2004).L’ampia introduzione (p. 9-199) è seguita da testo e apparati del De Pictura volgare (p. 203-324) e da un ricco Commento linguistico (p. 326-433), che integra così quello delle fonti posto invece in calce al testo. Il volume si completa con il recupero di un breve testo tecnico di Alberti, che appariva in fine al trattato, qui commentato da un esperto di prospettiva come Filippo Camerota. L’introduzione tocca molti punti e, per primo, accosta il testo volgare del De Pictura a opere come la Grammatichetta e la Familia (nei suoi primi tre libri) composte o rifinite da Alberti in uno stesso giro di tempo, all’indomani del suo arrivo a Firenze (1435) e che ora ci appaiono facce diverse di una medesima « costruzione identitaria » perseguita da un Autore venuto da ‘fuori’ e desideroso di ‘fiorentinizzarsi’. Di questa ‘fiorentinizzazione’ l’aspetto più noto era quello linguistico, testimoniato tanto dalla revisione linguistica cui l’Autore (secondo la testimonianza della Vita) sottopose i primi tre libri della Familia, risultati troppo « inelimati et asperi » (1433-34), quanto dalla composizione di quella che è, per sua responsabilità, la prima grammatica del toscano (che la Bertolini anticipa dunque al 1435). C’è però, come ora mostra bene la Studiosa, anche un altro piano di questa ‘fiorentinizzazione’, più psicologico e vitale che si attua nella Familia con l’iscrizione alla « prosapia » dei « mercatanti » fiorentini e invece nel De Pictura con l’assunzione di responsabilità dell’autore in quanto « pittore ».La Bertolini insiste giustamente su questa dimensione ‘biografico-tecnica’ di un testo che, nei secoli (andate perse le prove artistico-figurative albertiane, ricordate ancora da Landino e dal Vasari), è stato letto sempre più come un « trattato » perdendo per strada quella « autovalutazione » della propria attività di pittore, che Alberti così fortemente sottolinea nelle sue pagine. In ciò, la studiosa si allontana senz’altro dall’interpretazione esclusivamente umanistica che poneva il De Pictura sulla scia dei trattati di Cicerone e Quintiliano : dal « Ut pictura poesis ». A Humanistic Theory of Painting, di Lee (1967) al grande libro di Baxandall, Giotto and the Orators (1971). E anche ridimensiona la questione della dedica al Brunelleschi testimoniata dalla redazione volgare, pagina in realtà presente nel solo codice fiorentino dell’opera (il Naz. Centrale II IV 38, in cui il testo del De Pictura volgare è datato 1436) e motivata dal chiudersi, proprio nel luglio di quell’anno, della vicenda della cupola di Santa Maria del Fiore. Allo stesso tempo, la « maniera » fiorentina illustrata nel Prologo dai nomi di Brunelleschi, Donatello e altri perde per strada « Masaccio » che, morto nel 1428, difficilmente Alberti avrà conosciuto e che la Studiosa propone di identificare invece (come già lo Janitschek nella sua edizione del testo : 1877) col più « modesto scultore Maso di Bartolomeo », attivo in quegli anni alla fabbrica del Duomo.Dopo la brillante introduzione, le pagine 61-176 contengono la vera e propria nota al testo, con la descrizione dei manoscritti utili alla sua costituzione : oltre al Fiorentino (di cui Paola Massalin ha da poco identificato il copista in Lorenzo Vettori, un amico di Alberti), il Parigino ital. 1692 e il Veronese Capitolare CCLXXIII ; e delle poche edizioni, a partire dalla tarda princeps del Bonucci, che per primo a metà Ottocento si era espresso (pur senza poterla dimostrare) a favore della sequenza volgare-latino delle redazioni.Nella sfortuna che, dal 1975 innanzi, arrise alla versione volgare del De Pictura conta, osserva acutamente la Bertolini, oltre che l’idea di un Alberti esclusivamente umanistico, anche la disamina filologica del Grayson, per il quale, se pure il testo latino precedeva quello volgare, Alberti era però tornato, una volta tradottolo, sull’originale latino correggendolo e limandolo. In questo modo, nota la Studiosa, il testo volgare finiva per risultare niente più che « un episodio, cronologicamente costretto fra i due stadi redazionali della versiona latina, ideologicamente irrilevante perché strumentale e contingente volgarizzazione ad uso degli indotti artisti di uno scritto pensato per e destinato ad un pubblico di dotti umanisti » (p. 77).Dei tre codici, il Fiorentino, riconosciuto opera del Vettori, acquisisce ora nuova credibilità, dopo che già era noto contenere giunte e correzioni autografe dell’autore e dunque esser passato sotto i suoi occhi se non addirittura esser stato da lui confezionato. Esso ci presenta, come già vide il Grayson, l’ultima forma del testo e dunque, con la prudenza del caso è promosso a testo. Il codice non è però esente da pecche. Ai circa cinquanta emendamenti operati dal Grayson, la Bertolini ne apporta ora un’altra decina, tutti splendidamente commentati sulla base della testimonianza congiunta o isolata dei codici, dimostrati essere indipendenti da F, o col conforto del testo latino (p. 82-85) o infine sulla base di un riconoscuto ‘usus scribendi’ dell’autore. Ma una volta discussi i risultati della collazione e ipotizzato lo stemma codicum che, partendo da un antigrafo comune ai tre codici, vede la separazione di F da un lato e V e P dall’altro (p. 86-104), non tutto torna secondo una stretta logica lachmaniana neppure a questa espertissima filologa. La quale, per spiegare le differenze tra i testimonî V e P, ipotizza la derivazione da un « autografo in movimento » : da un codice, cioè, sul quale l’Alberti continuò a lavorare mentre i copisti traevano copia. È questa del resto una tipologia di trasmissione dei testi più frequente di quanto si pensi e attestata in altre opere albertiane o no, ad esse coeve : si pensi al caso della Vita civile del fiorentino Matteo Palmieri, studiato da Giuliano Tanturli ormai più di un ventennio fa. Anche le numerose varianti alternative collocate nei margini del codice fiorentino confermano questa tipologia di trasmissione di un « autografo in movimento ». Resta, ed è una delle importanti acquisizioni di questa edizione, che V e P rappresentano, a sprazzi (per quanto è documentabile), l’esistenza di una redazione primitiva rispetto a F, che dell’elaborazione del testo volgare ci offre invece lo stadio finale.Un capitolo a parte di questa esemplare edizione critica è dedicato alla analisi della nutrita serie di « varianti adiafore », che accomunano o separano i testimonî (le tavole a p. 112-34). Qui la difficoltà consiste nel riconoscere una logica che permetta di attribuire le varianti all’autore o, invece, al copista. Si tratta, è evidente, di scelte che hanno conseguenze diverse nella valutazione della trasmissione del testo, quale un’edizione critica deve tentare di illustrare. Da questo punto di vista, l’operato di Grayson era stato più pragmatico, forse considerando che, in presenza di un codice come F attestante l’ultima forma del testo, le ricadute su questo delle varianti di V e P non fossero poi così importanti. E l’editore inglese aveva di fatto rinunciato a distinguere lezioni erronee di P e V da quelle che invece (ed è il grande lavoro della Bertolini) non lo sono e dunque devono attribuirsi senz’altro all’Alberti.Dal 1973, anno dell’edizione Grayson, sappiamo tuttavia molto di più su « come lavorava » l’Alberti e l’analisi degli autografi della Familia, della Musca o del Momus possono essere messi a servizio di una più sofisticata distinzione anche sul terreno difficilissimo della varianti apparentemente adiafore, come la Bertolini fa pervenendo a una più stretta seriazione delle fasi eleborative del testo (p. 138 e ss). Per comodità di analisi, la Studiosa riunisce le numerose varianti « adiafore » in tre categorie : quella risultante da un « diverso ordine delle parole », le « varianti lessicali o sintattiche » o le « assenze in PV ». L’analisi che ne fornisce, individuando la prassi correttoria di Alberti, appartiene agli esempi più alti di quella che nel 1978 Dante Isella (muovendo sulle tracce di filologi classici e romanzi come Giorgio Pasquali, Santorre Debenedetti e Gianfranco Contini) ha battezzato « filologia d’autore » : con l’osservazione, tuttavia, che mai il patrimonio di varianti d’autore era stato finora preso in conto per un autore del Quattrocento in maniera tanto sistematica come qui è fatto. La Bertolini riconduce e spiega le varianti lessicali in base a meccanismi di « sollecitazione contestuale » (gusto autoriale per la variatio, cancellazioni di fastidiose sequenze allitteranti, ecc.), che trovano esempi di applicazione insigne nella « critica degli scartafacci » da Contini applicata a Petrarca e Leopardi (senza dimenticare Proust) e, insieme, ricevono conferma dalla profonda conoscenza che la curatrice ha della lingua di Alberti. Contini aveva utilizzato il termine di « implicazioni » per spiegare la logica correttoria di Leopardi, pervenendo a riconoscere un « sistema » dell’autore ; la Bertolini preferisce parlare di « dissimilazioni », esemplificando mirabilmente il ricorrere di costanti elaborative alle p. 138-150.L’analisi porta anche a una più stretta definizione dello stile di Alberti, che oscilla (come non ha mai cessato di fare lungo i quarant’anni della sua operosità : 1430-1470) tra la pressione del latino da una parte e le esigenze del volgare dall’altra, tra tecnicismo e linguaggio familiare. Ma anche prefigura, soprattutto per la categoria delle « varianti lessicali » e delle « lacune » di V e P colmate da F (analizzate alle p. 140-50) una redazione primitiva rappresentata dai codici V e P a fronte dello stadio finale del Fiorentino. La « terza categoria » delle varianti (le « assenze » di V e P), colmate da F, codice idiografo di più opere albertiane copiato dopo il 1441 dal Vettori e rivisto probabilmente qualche anno dopo (la Bertolini pensa al 1443) dall’Alberti. Questa categoria è illustrata compiutamente dalla studiosa, che mostra come non sia un procedere casuale ma risponda a un preciso « sistema » correttorio dell’Autore. Alberti procede insomma in F all’ « esplicitazione » del discorso e al suo completamento, che era sovente « ellittico » nei codici V e P. Questa la sintesi cui giunge la studiosa, a p. 147 : « Coerente con strategie generali e albertiane in particolare, il progressivo ampliamento del testo volgare del De Pictura persegue anche quella precisione e accuratezza tecnico-scientifica che difettavano alla prima fase redazionale, caratterizzata da approssimazioni e omissioni ». Dunque da V e P a F. Ma l’esame delle varianti ottiene risultati anche più sottili, distinguendo, entro la prima redazione del testo, la seriorità di P rispetto a V. In sostanza, abbreviando, nella redazione attestataci dal Parigino e dal Veronese si può individuare l’anteriorità di V, che è fatto discendere dallo stesso antigrafo da cui discende P, ma ad uno stadio di quello ancora imperfetto. Il codice Parigino approfitta, da parte sua, di una più avanzata elaborazione dell’antigrafo, ciò che spiega la differenze con V da una parte e la posizione intermedia nella trafila dei testimonî dall’altro. Come dimostra la Bertolini in pagine tra le più alte del libro, l’elaborazione albertiana della redazione volgare non fu « né unitaria né diligente ». Conclusa la correzione del testo volgare in F, Alberti fu così indotto a proseguirla anche sul testo latino del trattato che, sotto questo aspetto, è il seguito di F.L’edizione del trattato dà dunque a testo il codice F fornendo tre fasce di apparato : nella prima (« apparato redazionale ») stanno quelle lezioni che fanno pensare a una redazione antecedente d’autore ; nella seconda trova luogo la varia lectio dei codici (compresi gli errori di F) ; nella terza, la Studiosa offre l’esplicazione delle fonti esplicitamente dichiarate nel testo albertiano, che in una colla ricca nota linguistica è di fatto un ‘commento’. Un vero e proprio commento ai testi volgare e latino del trattato è però annunciato in un autonomo volume, al momento dell’edizione critica del testo latino.In questa edizione critica, che l’ « Edizione nazionale » avviata nel 2004 finalmente ospita, la « filologia albertiana » ha raggiunto – si sarà intuito – livelli di una raffinatezza e profondità solo vent’anni fa inimmaginabile. Grazie a Lucia Bertolini, oggi senza dubbio la massima conoscitrice della tradizione albertiana, sappiamo ormai molto su « come componeva e correggeva » l’Alberti e siamo in grado di riconoscere nei dettagli della elaborazione il complesso programma culturale nei vari campi ai quali l’Autore si applicò. Al di là di qualche opera latina, importante ma minore (il discorso è invece diverso per il De re aedificatoria), l’esempio di questo De pictura ‘volgare’ fornisce la nuova ‘misura’ della filologia albertiana. Perché non si pensi tuttavia che l’impresa sia facilmente riproducibile, si ricorderà solo che l’ edizione è il frutto di oltre vent’anni di frequentazione del cantiere albertiano : e in primis di quello favorito, a partire dal 1992, dall’imprenditorialità intellettuale del « Centro di Studi per il Classicismo » diretto da Roberto Cardini, di cui Lucia Berolini è stata fin dall’inzio ed è tuttora magna pars.
Data recensione: 01/01/2012
Testata Giornalistica: Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance
Autore: Massimo Danzi