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Sembra ormai un tempo molto lontano quello in cui nella pittura Vassily Kandinsky cercava di rendere il colore un linguaggio autonomo

Nella pittura di Filippo Rossi la ricerca dei contenuti metafisici e simbolici della materia

Sembra ormai un tempo molto lontano quello in cui nella pittura Vassily Kandinsky cercava di rendere il colore un linguaggio autonomo. Sia Matisse, sia altri come Arshile Gorky, volevano far vedere che il colore in se stesso contiene dei contenuti simbolici di una profondità insondabile. Erano convinti che questi contenuti, ai quali si può avere accesso proprio tramite il colore, non sono legati agli oggetti, al mondo materico figurativo. Basta già questo per rendersi conto che non è un caso che questi maestri abbiano tutti in qualche maniera delle radici nel mondo dell’arte bizantina. È l’arte bizantina, infatti, ad aver messo in rilievo l’importanza del colore puro e ad affermare che l’armonia dei colori non dipende dal mischiare i colori, togliendo loro, in un certo senso, “personalità”. Si apriva così una nuova via dell’arte simbolica, non legata all’immagine. Giustamente le attese spirituali e, perché no, anche religiose potevano essere molte. Ma la storia non è andata linearmente in questa direzione, “liberando” il colore dalla figura e dall’oggetto. E, invece di aprirsi una strada di approfondimento simbolico in senso spirituale, si è optato per una liberazione dell’espressione massicciamente psichica. Sono nate diverse correnti dell’espressionismo: astratto, informale e così via. Tutto questo ha dato sfogo a un linguaggio soggettivo, all’affermazione di un codice soggettivo della realtà. E infatti, di pari passo, si faceva avanti una cultura con forti accenti soggettivisti e individualisti, che in fin dei conti celebravano come opera d’arte già il fatto stesso dell’espressione dell’uomo. Su questa scia, in un modo o in un altro, siamo giunti a una specie di soffocamento della creatività artistica e l’opera degli artisti è stata sempre più fortemente segnata dall’incomunicabilità – dunque dalla solitudine e, di conseguenza, dalla precarietà. Non siamo più riusciti a perforare il chronos e ci siamo accontentati delle diverse installazioni e sperimentazioni virtuali, alle volte scivolando addirittura nella sfida aperta a chi osa di più. L’indagine cominciata con Kandinsky e con pochi altri rischia dunque di rimanere una parentesi senza un vero seguito. La pressione accumulata sul soggetto lungo i secoli passati era troppa e perciò, aperto il coperchio, si è verificata un’esplosione. Se la pittura occidentale già da molti secoli ha optato per il reale, inteso ed elaborato secondo una forma ideale, nel XX secolo si doveva constatare un rovesciamento della direzione. Non si riusciva più a intravedere né il reale, né tanto meno la sua idealizzazione. Ma queste due realtà erano apertamente sfidate da uno spirito ribelle a entrambe. Filippo Rossi si presenta oggi sullo scenario dell’arte contemporanea quasi come un fenomeno isolato. In una controtendenza coraggiosa, in una esplicita e affermata fedeltà alle intuizioni fondamentali e iniziali, vuole portare avanti la ricerca dei contenuti metafisici e simbolici esplicitamente spirituali del colore e della materia. È importante che qualcuno voglia prendere la staffetta di quei grandi pionieri dell’indagine simbolica del colore e della materia, liberata non solo dal mondo delle immagini, ma soprattutto da una condensa psicologica e psicoanalitica. La prima cosa che Rossi scopre e accetta nella sua via artistica è che il colore è la testimonianza della luce e che la materia con la luce diventa manifestazione della vita. Perciò il suo cromatismo diventa sempre più raffinato, sensibile, delicato, decisamente orientato verso l’oro, cioè verso la luce.

(Marko Ivan Rupnik)
Data recensione: 04/09/2012
Testata Giornalistica: L’Osservatore romano
Autore: ––