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All’indomani dell’annuncio della firma dell’armistizio, l’8 settembre 1943, furono catturati dai tedeschi circa 810.000 soldati italiani stanziati in Italia, in Francia, nei Balcani e nelle isole.

All’indomani dell’annuncio della firma dell’armistizio, l’8 settembre 1943, furono catturati dai tedeschi circa 810.000 soldati italiani stanziati in Italia, in Francia, nei Balcani e nelle isole. Di questi, circa 186.000 decisero di restare fedeli all’alleato nazista. Il restante numero, più di 600.000 soldati, venne deportato nei lager nazisti con lo status di Imi, Internati militari italiani. Una definizione, questa, apparentemente innocua ma che in realtà rappresentava una condizione peggiore rispetto a quella dei «prigionieri di guerra». A differenza infatti dei prigionieri inglesi, francesi o americani, gli internati italiani erano sottratti alla convenzione di Ginevra, firmata nel 1929, e ai soccorsi della Croce rossa internazionale. Inoltre, il fatto di non aver aderito alla Repubblica sociale li poneva nella condizione di essere considerati dei traditori. Soltanto di recente la storia di questi soldati è stata riscoperta e analizzata in maniera adeguata dalla storiografia. A lungo infatti, ha affermato Elena Aga Rossi, si è guardato alle vicende resistenziali in maniera agiografica e unilineare, soffermando la propria attenzione quasi esclusivamente sulla Resistenza politica organizzata espressione dei partiti politici, al fine di legittimarne il loro ruolo nella Repubblica. Ciò ha portato però, secondo la studiosa, a trascurare la prima Resistenza attuata nelle immediate settimane dopo l’armistizio, quella cioè che, peculiarità tutta italiana, vide la partecipazione delle forze armate regolari. Furono i soldati i primi ad essere costretti a scegliere. La loro esperienza, soprattutto quella di coloro che si rifiutarono di continuare a combattere, venne confinata nella categoria generica di «Resistenza passiva», in quanto si trattava – ha precisato Santo Peli – di un «rifiuto del fascismo senza “antifascismo”». Gli Imi divennero così, come scrisse alcuni anni fa Enzo Forcella, «uno dei tanti angoli morti della storia, una di quelle pagine su cui si sorvola, perché appaiono fuori quadro, refrattarie agli schemi che aiutano gli storici a padroneggiare la materia del loro lavoro». Privi di una cultura politica nuova, cresciuti nel fascismo e già da anni al fronte senza contatti con il paese, i militari italiani che scelsero di non aderire alla repubblica di Salò lo fecero per motivi diversi, ma molti soprattutto perché disillusi e intenti a restare fedeli alla propria dignità di uomini (solo una minoranza, soprattutto tra gli ufficiali, fu motivata dall’onore e dal rispetto del giuramento di fedeltà al re). Il che – ha precisato Santo Peli – «ha contribuito a respingere per decenni l’esperienza e le scelte degli Imi ai margini, quando non in una posizione di sostanziale estraneità alla Resistenza». Quel «no» non muoveva «da un progetto politico, finendo per rappresentare agli occhi agli occhi della “nuova” Italia un triste residuo del passato fascista, più che una prospettiva per il futuro; tutt’al più una tragedia umana, non illuminata da consapevolezze e progetti politici, e come tale di scarso interesse. Al tripudio della vittoriosa liberazione, all’orgoglio della guerra di riscatto combattuta dai partigiani, sfuggivano tanto il valore simbolico della resistenza degli Imi, quanto gli enormi effetti pratici della loro scelta». Oggi la situazione è cambiata e sono scomparsi una serie di studi, a partire dalle ricerche di Gerhard Schreiber, che hanno mostrato e indagato con maggiore attenzione la realtà, le scelte, le condizioni di vita di quei soldati che furono internati nei lager nazisti e sfruttati dal regime hitleriano come lavoratori coatti. Il volume curato da Annarosa Bartolini e Emanuela Malvezzi si inserisce in questa nuova attenzione rivolta dalla storiografia italiana verso la «Resistenza non armata». Esso raccoglie nove testimonianze e due diari di internati durante la Seconda Guerra mondiale nati e residenti a Piombino. Nella prima parte del libro, le curatrici ricostruiscono i percorsi e le vicende degli undici protagonisti piombinesi, sulla base delle interviste raccolte e dell’analisi dei due diari, riportati integralmente nella seconda parte. La ricostruzione delle curatrici conferma quanto già riportato a livello nazionale dalla storiografia. Esse infatti registrano l’euforia iniziale al momento dell’entrata in guerra dell’Italia e il progressivo mutamento di prospettiva con il manifestarsi della realtà della guerra e dell’impreparazione dell’esercito italiano: «ci mandarono al fronte senza niente», ricorda infatti il sergente Valentino Baldocchi. Una disillusione che si trasforma in smarrimento l’8 settembre 1943. Abbandonati e privi di istruzioni operative, al pari di tutto l’esercito regio, i protagonisti del volume ricordano tutti lo stato d’animo d’isolamento in cui si trovarono nei giorni successivi la firma dell’armistizio. Isolati e privi di qualsiasi guida e coscienza politica matura, furono facile preda della Wehrmacht. A questo punto il racconto passa all’analisi delle durissime condizioni di vita in terra tedesca dove, oltre al freddo, alle malattie, alle disastrose condizioni igieniche e al durissimo lavoro, gli internati ricordano tutti come «chiodo fisso» la fame. Condizioni di vita che peggiorano durante i bombardamenti, quando la morte diventa una presenza a tal punto incombente da portare il marinaio Elvio Mazzarri a dire: «A quei tempi che speravo di perde’ la vita, in quelle condizioni lì! Avevo paura di soffrire, però se fosse venuta una bomba e mi avesse levato di lì...la pigliavo». Con l’approssimarsi della fine della guerra, alla speranza di morire sotto i bombardamenti subentra l’attesa angosciante della liberazione e del ritorno a casa. Mameli Sarti, nel ‘43 in servizio militare presso il 9° Reggimento Artiglieria a Bressanone, ricorda il suo ritorno a casa poco più che ventenne con parole che racchiudono bene il senso dell’esperienza degli internati militari italiani: «Quando arrivai a casa sembrava che mi scoppiasse il cuore. Suonai il campanello, mi aprì mia sorella, e fu un momento non so se ridevo, se piangevo, se urlavo, […] fu un momento che non posso descriverlo». Un ritorno, dunque, che viene vissuto come una vita nuova. «È come rinasce’», dichiara infatti Mazzarri. Ma, continua quest’ultimo, il ricordo resta impresso indelebilmente nelle loro vite: «Non si dimenticano queste cose qui […] io non le racconto mai perché ho paura che la gente non ci creda a quello che ho passato». Una frase, questa, carica di significato e che pone all’attenzione un’altra questione: quella del rientro e delle difficoltà di tornare alla normalità in una società civile che non vuol sapere, che vuole semplicemente dimenticare e ricominciare. Per questo, seppur un po’ forzata, per la diversa natura dell’esperienza degli Imi rispetto a quella ebraica, appare comunque indicata, per lo meno a livello di vissuto emotivo dei protagonisti, la frase con cui le curatrici chiudono il loro saggio introduttivo. Si tratta di un passo tratto dal libro di Primo Levi Se questo è un uomo, dove si afferma: «Oggi, questo vero oggi in cui sto seduto a un tavolo e scrivo, io stesso non sono convinto che queste cose sono realmente accadute». Il volume, attraverso l’analisi di una piccola porzione di quei 600.000 soldati, riporta alla luce e toglie definitivamente dall’oblio l’esperienza di undici soldati, inserendo le loro vite e le loro scelte, il loro rifiuto di continuare a combattere così carico di conseguenze, afferma correttamente Paolo Pezzino nell’introduzione, in quelle «resistenze» italiane al nazismo e al fascismo, all’interno della «grande varietà di piccole e grandi disobbedienze», a tutta quella varietà di comportamenti, cioè, «non conformi agli ordini delle autorità d’occupazione tedesche che il popolo italiano mise in atto nei mesi dell’armistizio dell’8 settembre 1943 alla liberazione». Esso, insomma, fornisce un contributo alla comprensione e all’analisi di un macro-fenomeno partendo dal micro, dall’elemento locale, secondo un metodo d’indagine di «convivenza negoziale» tra storie locali e storia nazionale che ha permesso alla storiografia, ha sottolineato di recente Luca Baldissara, di riappropriarsi della dimensione spazio, da sempre trascurata e data per scontata, che si affianca così alla dimensione tempo, fattori entrambi centrali nella definizione delle azioni umane e nello studio della storia. 
Data recensione: 01/05/2011
Testata Giornalistica: Ricerche di Storia Politica
Autore: Donatello Aramini