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Il turismo culturale di massa privilegia sempre più le città d’arte e, tra queste, Firenze capeggia tutte le classifiche, calamitando nel suo centro storico un instancabile pellegrinaggio

Il turismo culturale di massa privilegia sempre più le città d’arte e, tra queste, Firenze capeggia tutte le classifiche, calamitando nel suo centro storico un instancabile pellegrinaggio che, con la globalizzazione e la diffusione dei voli low cost, di fatto non conosce pause nemmeno in quelle che un tempo erano considerate “stagioni morte”. Città d’arte è, del resto, definizione minimalista. Firenze, al pari di Roma e Venezia, è una grande città museo: un’impareggiabile galleria di capolavori a cielo aperto, in cui non c’è praticamente palazzo, chiesa, strada o giardino che non meritino una visita, fugace o approfondita. Per non dire dello sfolgorante diadema di ville e colline che le fanno da corona. Tuttavia, il richiamo di grandi musei come gli Uffizi, Pitti e Boboli, la Galleria dell’Accademia e il Museo del Bargello risulta, a conti fatti, così perentorio e magnetico da oscurare tutti gli altri, compreso quello, fascinoso ma più tenue, emesso dalla luccicante galassia dei suoi musei minori. Che poi a Firenze minori non sono se non per le dimensioni, perché in realtà rifulgono di piccoli e grandi capolavori che farebbero gola a qualsiasi grande museo. Nell’era dei mass media e della civiltà delle immagini, la parola d’ordine – lo sanno tutti – è: “visibilità”. Se non si è visibili non si esiste, si rischia la marginalità, l’esclusione da tutti i circuiti vitali della comunicazione. Per contrastare questo stato di cose, da qualche tempo, l’Ente Cassa di Risparmio di Firenze ha ideato il progetto “Piccoli Grandi Musei”, che in questi giorni, insieme al Polo Museale Fiorentino, alla Provincia e al Comune di Firenze e alla regione Toscana, lancia l’iniziativa Le stanze dei tesori. Meraviglie dei collezionisti nei Musei di Firenze (fino al 15 aprile 2012). Il tema, che è suggestivamente tratteggiato a Palazzo Medici Riccardi con una mostra, curata da Lucia Mannini e con il coordinamento scientifico di Carlo Sisi, è quello degli anni ruggenti del collezionismo fiorentino: la stagione, eccezionale quanto irripetibile, che va, grosso modo, dall’Unità d’Italia agli anni Venti del ‘900, quando un manipolo di antiquari e di esteti, italiani ma soprattutto anglosassoni, spesso animati da una sincera passione per la bellezza ma anche da un rapace fiuto per gli affari, sfruttò tutte le opportunità offerte dalla decadenza di grandi famiglie e, soprattutto, dalle soppressioni post-unitarie di conventi e istituzioni ecclesiastiche, per accaparrarsi a buon prezzo inestimabili opere d’arte e smerciarle, al di qua e al di là dell’Atlantico. Tutto ciò, va detto, nella sostanziale indifferenza di uno Stato unitario ancora esitante nel mettere a punto le proprie linee di difesa del patrimonio artistico nazionale. A tanta, innegabile dilapidazione, che contribuì però non poco al consolidamento di quel primato dell’arte italiana che è ancora così evidente e palpabile per chiunque visiti le raccolte dei grandi musei europei e d’oltreoceano, corrispose però, quasi sempre, una sorta di resipiscenza. Innamorati com’erano dell’Italia e di Firenze, molti di quei collezionisti e mercanti non solo la scelsero come propria stabile residenza, ma finirono anche per fissarvi la propria dimora eterna, donando alla città le proprie raccolte, spesso tuttora conservate nei palazzi-museo che essi stessi avevano abitato e arredato. Entrano in gioco,a questo punto, le Stanze dei tesori. Già, perché se la raffinata rassegna di Palazzo Medici-Riccardi ha il compito di stuzzicare l’appetito, rievocando luoghi, personaggi, miti, atmosfere e snobismi di quell’epopea perfettamente in bilico tra art pour l’art e art pour le marché, la parola passa poi direttamente ai protagonisti di quell’epoca: personaggi del calibro di Stefano Bardini, Frederick Stibbert, Herbert Percy Horne e vari altri esponenti della sofisticata colonia anglobecera della Firenze a cavallo tra ‘800 e ‘900. Ognuno di loro ha lasciato a Firenze il proprio “Piccolo Grande Museo” e, in quest’occasione, offre testimonianza di se stesso e della propria passione collezionistica, attraverso di esso e con specifiche mostre a tema, alcune delle quali hanno proprio il sapore della scoperta di tesori rimasti finora sepolti sotto la polvere di qualche buio ripostiglio, e finalmente rimessi in vetrina e valorizzati con le giuste luci di scena. È il caso, ad esempio, del “principe degli antiquari”: quello Stefano Bardini, gran mercante ma anche patriota garibaldino (combatté a Suello e a Bezzecca), che rifornì di opere d’arte rinascimentale, tra gli altri, il Kaiser Friedrich Museum di Berlino, ma che alla vigilia della Grande Guerra chiuse di colpo la stagione degli affari per dedicarsi al collezionismo “puro”, stipando nel proprio palazzo-Museo di Piazza de’ Mozzi più di mille opere, che poi lasciò in eredità a Firenze. In questo frangente, il Museo Stibbert si presenta in ghingheri con il Salone dei dipinti, al piano nobile, restaurato e riallestito. Né vuol essere da meno il Museo Horne, in via de’ Benci, che contribuisce da par suo alla manifestazione con una mostra di una trentina di disegni d’eccezione, che fanno parte di un suo fondo, a lungo depositato presso il Gabinetto dei Disegni degli Uffizi, ma che ora tornano stabilmente. I nomi degli autori? Tra gli altri, Raffaello, Dürer, Parmigianino, Bernini, Pietro da Cortona, Füssli, Constable. A Fiesole, nel Museo Bandini, si possono ammirare i “fondi oro” e le scintillanti robbiane collezionate da Angiolo Maria Bandini, un erudito canonico che era in stretti rapporti con personaggi della statura di un Winckelmann e di un Mengs, e il cui “Museo sacro” è un po’ l’antesignano di tutti i Piccoli Grandi Musei fiorentini. Nel Museo della casa Fiorentina antica in Palazzo Davanzati, una formidabile mostra fotografica di arredi storici ci introduce a uno dei personaggi meno noti e più intriganti di quest’epopea antiquariale: Elia Volpi, artista mancato, falsario a tempo perso e mercante di successo, che da giovane imparò i trucchi del mestiere da Bardini (il quale lo cacciò, quando si accorse che non si faceva scrupolo di rubargli i clienti). Ma nonostante ciò è a Volpi che si deve l’“invenzione”, di Palazzo Davanzati come museo dell’arredo antico fiorentino. Egli infatti lo comprò per un tozzo di pane, lo restaurò e nel 1920 ne fece una sorta di vetrina dell’artigianato fiorentino, alimentando così i propri commerci con i musei stranieri, ma al tempo stesso la fama e il mito del primato fiorentino nell’arte.
Data recensione: 08/10/2011
Testata Giornalistica: La Repubblica
Autore: Antonio Pinelli