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Cittadini d’Italia o sudditi del granduca di Toscana? Questa la scelta che fu proposta ai toscani negli anni delle lotte risorgimentali. O almeno, questa sembrava essere l’alternativa, almeno finché non si trovarono nelle mani

Cittadini d’Italia o sudditi del granduca di Toscana? Questa la scelta che fu proposta ai toscani negli anni delle lotte risorgimentali. O almeno, questa sembrava essere l’alternativa, almeno finché non si trovarono nelle mani la scheda di un plebiscito che proponeva l’annessione al Regno di Piemonte. Raccontare attraverso i documenti originali come e perché si sia arrivati a quell’appuntamento è il proposito della mostra “Cittadini d’Italia-Primi passi della Toscana nello stato unitario”, con la quale l’Archivio di Stato di Firenze porta il suo contributo alle celebrazioni del 150° dell’Unità. Un contributo serio e attento, com’è nella tradizione di questa grande istituzione nota nel mondo intero per la strepitosa ricchezza delle sue collezioni e per la qualità dei suoi servizi agli studiosi. La mostra offre una occasione di alto livello e nello stesso tempo di facile accessibilità per capire come fu che dallo stato toscano si passò allo stato italiano. Vale la pena di approfittarne perché quel passaggio non fu così ovvio. Era ovvio, sì, che i patrioti non potessero nemmeno immaginare un’Italia unita senza la Toscana: poteva forse esserci una nazione italiana senza Firenze, senza la lingua di Dante, di Boccaccio, di Machiavelli, senza l’arte di Leonardo e di Michelangelo, senza la scienza di Galileo? Fin dal primo affacciarsi del pensiero di una patria italiana nel senso politico del termine il percorso che se ne intuì passava necessariamente attraverso l’apertura del piccolo mondo granducale al contesto di una nazione più vasta. Ma come dalle infiammate rime del Foscolo, dalle trame giacobine e mazziniane e dai discorsi dei salotti fiorentini si sia arrivati all’esito trionfale di quel plebiscito del marzo 1860 resta una domanda non banale. Quella Toscana granducale godeva di un assetto solido, di un governo mite, di un costume civile relativamente più avanzato di quello del resto d’Italia. Una classe dirigente di nobili, grandi proprietari terrieri e ricchi borghesi aveva saldamente in pugno la massa dei contadini delle campagna e non amava i cambiamenti. Eppure quando gli aventi diritto al voto si videro proporre una secca alternativa tra l’adesione al Regno di Piemonte e la scelta del regno separato ben 366.577 sui 386.445 votanti furono a favore dell’annessione al Piemonte. Come si era arrivati a quell’esito? I documenti della mostra permettono di guadare a quel momento con gli occhi di chi si trovò a viverlo. E molti davanti a questi documenti e all’iconografia esibita dalla mostra penseranno ai sentimenti dei loro bisnonni quando si trovarono alle prese con una scelta controversa e inquietante. Certo, non fu un passaggio scontato. In Toscana come altrove il progetto politico dell’unità, era avversato dai clericali ma anche guardato con diffidenza dai moderati. I quali però governarono con mano ferma il momento culminante della scelta e organizzarono il rito di passaggio in modo che non ci fossero sorprese. Come e perché lo fecero? Il come è illustrato molto bene dai documenti della mostra. Qui vediamo come le clausole del trattato di Villafranca che prevedevano il ritorno a Firenze dei Lorena incontrassero la netta opposizione del governo provvisorio che reagì alzando la barriera del libero voto dei toscani: una consultazione elettorale a base censitaria portò a un’assemblea rappresentativa fatta di nobili e di borghesi, di tendenza moderata, che dichiarò decaduta la Casa Asburgo-Lorena e chiese l’annessione al Regno di Sardegna. Fu questa la premessa del plebiscito vero e proprio. Ma perché lo facessero richiede un discorso più complesso. Intanto, c’era stato uno sviluppo di forze produttive e di infrastrutture che chiedeva un mercato nazionale: quella ferrovia, la celebre “Leopolda”, suscitò il plauso di Cavour che ben ne intese il significato. Inutilmente i contadini, fanatizzati dal clero, reagirono contro quel treno in cui vedevano il diavolo, quel Satana a cui Giosuè Carducci doveva dedicare il suo celebre inno. La minaccia di una insorgenza contadina contro la nazione italiana malvista e condannata dalla Roma papale fu sapientemente esorcizzata da Bettino Ricasoli: fu lui che nella circolare del 3 marzo 1860 ordinò ai prefetti ai gonfalonieri di far inquadrare la gente dei campi in gruppi guidati dai loro fattori e dai possidenti terrieri di maggior spicco. Ma non c’era solo il pericolo dell’egemonia clericale sulle masse contadine. Il vento del cambiamento politico aveva suscitato speranze di una vera rivoluzione. Non fu per caso se il figlio di un barrocciaio dell’Amiata, Davide Lazzaretti, scelse di andare volontario nella campagna militare del 1860 per andare poi a svelare le sue visioni mistiche a Pio IX, finendo scomunicato dalla Chiesa e ammazzato dai carabinieri. C’era una primavera dei popoli che minacciava di far sbocciare speranze eccessive, pericolose per le classi dominanti. Fu questo l’argomento che convinse i moderati a prendere la testa del movimento e a portarlo in mani sicure col plebiscito e l’annessione. Come spiegava in una fase delicatissima Leopoldo Galeotti scrivendo al marchese Neri Corsini il 14 ottobre 1859, “se l’aristocrazia e le classi intelligenti non avessero cercato di pigliare la direzione del movimento, questo sarebbe caduto in altre mani, e le plebi le quali sono già da molto tempo agitate dallo spirito rivoluzionario, e tutte disaffezionate alla dinastia, ne avrebbero fatte delle belle”. Bisognava insomma – come scrisse un secolo dopo Giuseppe Tomasi di Lampedusa – che tutto cambiasse perché tutto potesse restare com’era.
Data recensione: 01/10/2011
Testata Giornalistica: La Repubblica
Autore: Adriano Prosperi