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Stefano Bardini, l’uomo destinato a diventare il dominus del mercato artistico internazionale fra Berlino e Parigi, New York e Boston, era il grande antiquario che, fra Ottocento e Novecento, dai suoi uffici di Firenze e

Stefano Bardini, l’uomo destinato a diventare il dominus del mercato artistico internazionale fra Berlino e Parigi, New York e Boston, era il grande antiquario che, fra Ottocento e Novecento, dai suoi uffici di Firenze e di Parigi, trattava con Willhelm Bode e con i coniugi Jacquemart-André, con Pierpont Morgan e con Isabella Gardner, consegnando ai grandi musei del mondo capolavori assoluti del Rinascimento italiano. Il 1866 è una data che cambiò radicalmente la sua fortuna e la sua vita: è l’anno della demanializzazione forzata del patrimonio mobile e immobile appartenente alle congregazioni clericali e agli ordini conventuali e monastici. Sono le leggi che la parte cattolica si affrettò a definire eversive. Gli effetti per le fortune dell’antiquariato e del collezionismo d’arte furono imponenti. Con un tratto di penna, il Guardasigilli Siccardi rovesciava sul mercato una quantità stupefacente di opere d’arte spesso di alta epoca mentre i venerabili edifici che quelle opere avevano accumulato e ospitato nei secoli, diventavano caserme e tribunali, scuole, ospedali, manicomi. Stefano Bardini era un uomo intelligente e fortunato. Capì che un’occasione come quella non si sarebbe ripetuta mai più. Bisognava collocarsi al centro del fenomeno, stare cioè fra un’offerta grandiosa e variegata, spesso rara e prestigiosa, da comprare a pochi soldi nelle aste pubbliche e una domanda che dall’Europa e dall’America cresceva impetuosamente spinta dall’affermarsi sul mercato dell’antica arte italiana e del gusto di primitivi dominante, in quell’epoca, fra le élites intellettuali d’Europa e d’America. Nell’Italia delle leggi Siccardi e dei patrimoni delle antiche famiglie che andavano velocemente dissolvendosi insieme al contestuale collasso di un ordine clericale e feudale rimasto pietrificato per secoli, Stefano Bardini giocò un ruolo fondamentale. Coadiuvato da raccoglitori locali che ruotavano intorno a lui come pianeti introno al loro sole e provvedevano alla prima selezione dei materiali da avviare sul mercato, servito da schiere di abilissimi restauratori capaci di intervenire su qualsiasi tipologia di oggetti, in contatto con i direttori di museo e i collezionisti più famosi del mondo, il piccolo provinciale di Pieve Santo Stefano diventò immensamente ricco. Il peso della sua fortuna e dell’internazionale successo conseguito, Firenze lo misura e non senza gratitudine, dal Museo che porta il suo nome, dalla villa e dal parco sul Colle del Belvedere oggi in concessione alla Fondazione della Cassa di Risparmio. Gli anni di Stefano Bardini e, in misura minore, di Elia Volpi fondatore a Firenze del Museo dell’Antica Casa fiorentina in Palazzo Davanzati, vero e proprio show-room per gli acquisti degli americani facoltosi, segnarono per il patrimonio artistico mobile del Paese un’epoca di grandi devastazioni, di migrazioni massicce di opere d’arte verso le collezioni private e i musei pubblici d’Europa e d’America. L’Italia, il Paese che aveva fondato la civiltà giuridica della tutela con i decreti dei Granduchi di Toscana (1604), con i provvedimenti della Repubblica Veneziana (1773), con gli editti dei Papi (celebre fra tutti quello del camerlengo Bartolomeo Pacca, del 1820). si ritrovò ad essere letteralmente saccheggiata in una situazione normativa di vero e proprio vacuum legi. Bisognerà aspettare la legge Rava-Rosadi e più ancora la legge del Ministro di Mussolini Giuseppe Bottai perché l’esportazione del patrimonio conoscesse limitazioni di legge e adeguate forme di protezione. Vale un principio: anche in questi tempi di frontiere permeabili e di globalizzazioni. Il possesso dell’opera d’arte non è una proprietà indifferente. Secondo il principio dell’uti et abuti sancito dal Diritto Romano, io posso fare quello che voglio delle cose che mi appartengono. Anche distruggerle, se mi aggrada. Ma se io sono possessore di una scultura di Donatello o di un dipinto di Tiziano, la mia non è più una proprietà indifferente, perché Donatello e Tiziano interessano tutti, sono parte della nostra civiltà e della nostra storia, la loro conservazione sta a cuore ad ognuno. La proprietà cessa di essere indifferente di fronte a beni che (dal punto di vista morale e spirituale) appartengono alla collettività. Ne consegue, quindi, che è dovere della potestà pubblica conoscerli e tutelarli. Si tratterà allora di trovare un bilanciato equilibrio, un ragionevole compromesso fra i diritti della tutela e quelli, altrettanto fondamentali, della proprietà privata e del libero commercio. Perché deprimere oltre misura il mercato significherebbe deprimere il collezionismo e la stessa scienza storico artistica. Favorire il liberismo mercantile più sfrenato (come accadeva ai tempi di Stefano Bardini) vorrebbe dire colpire a morte il patrimonio. A Firenze da sempre, soprintendenti e antiquari, collezionisti e mercanti, cercano di trovare, con pragmatica duttilità, il necessario punto di equilibrio.
Data recensione: 30/09/2011
Testata Giornalistica: QN - Il Resto del Carlino - La Nazione - Il Giorno
Autore: Antonio Paolucci