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Quella mano che raccoglie amore, quella mano alla prua, ferma ma occhi lontani, in cerca di un porto che l’accolga, nella procellosa vita di tutti i giorni, credo renda pienamente ragione ai miei convincimenti nati dalla

Quella mano che raccoglie amore, quella mano alla prua, ferma ma occhi lontani, in cerca di un porto che l’accolga, nella procellosa vita di tutti i giorni, credo renda pienamente ragione ai miei convincimenti nati dalla lettura di libri precedenti della Scerrotta Samà. Una mano che significa soprattutto concretezza, legame forte alla terra, seppure intesa come approdo in questa raccolta, forse, come punto di arrivo di uno sguardo lontano, di una ricerca interiore, di un volo fantastico, senza mai un’effettiva partenza.
Ci incontrammo con Innocenza in una libreria di Firenze, nell’appartata, quasi nascosta, sezione dedicata alla Poesia, scartabellando qua e là fra i libri di recente pubblicazione, senza poter io immaginare che di lì a poco con quella poetessa avrei addirittura scambiato corrispondenza.
Ci siamo incrociati per il suo stile di versi apparentemente spezzati, non consequenziali, come se ognuno vivesse di vita propria, ugualmente profondi. Una poesia dell’incanto, di quel momento in cui la terra, a cui la poetessa è fermamente ancorata, e il cielo si chiamassero e per un attimo s’incontrassero. In quell’attimo, il poeta (non mi piace declinarlo al femminile) con una parola chiusa in un verso essenziale, quasi crudo, sembra sfiorare le cose, gli oggetti, avvolgerle di nuovi significati. Ogni verso è una sorta di stella, autonoma, in un firmamento nello sfondo della Poesia, nella ricerca di una parola nuova, di un’armonia musicale che scaturisce da uno spartito senza memoria, il pentagramma misterioso di Nel cerchio della rete, oppure dalla ricerca di riferimenti nelle difficili rotte dei mobili sentieri in La mano e la prua. L’unica strada sicura infine è quella della Poesia, seppure col peso dell’ignoto / il riso dell’inganno. I versi di Scerrotta sono le Stelle d’oro / sui prati / sulle siepi / sugli argini / che fiancheggiano la strada... ridenti / al responso d’amore.
Protagonisti delle storie narrate rimangono comunque gli uomini e le cose (Tumulto / di uomini, / di cose, / tregenda di colori), che si chiamano fratelli nello sguardo, in un divenire costante, quasi fatalistico, che rasenta quella noia, così bene cantata nelle precedenti raccolte. Nella nuova, tuttavia, quel sentimento volge verso una impercettibile e velata nostalgia (Immobile il mare, immobili le vele. / Persi gli eroi / nel temerario sogno) che tormenta come un languore. All’improvviso, quando tutto sembra destinato al ritorno / al letto di pietra e a trovare rifugio nell’arsenale, come nave / squassata dal tempo / e / dalla lotta, ecco riemergere la voglia di sorprendersi, con la vela di uno smemorato sogno, / inconsapevole prodigio, o la bellezza di una rovina che Irradia bellezza / specchiandosi / nell’acqua, / azzurra più del cielo / nell’attimo / d’un tenero mattino.
Uomini e cose sono inseguiti dal canto di Innocenza, che in questa ultima opera appaiono rivitalizzarsi nel sogno, nello scarto sui fantasmi del giorno, impersonati o vissuti nel languore evocato: Siamo veri / nei sogni della notte, / fantasmi il giorno / con mano al volante, mentre il tempo / corre. L’atemporaneità del sogno (e della Poesia): è questo l’approdo dell’ultima opera di Innocenza. Una parola dal contenuto filosofico, esistenziale, spoglia di qualsiasi suggestione, buttata lì, nel mezzo di una lirica, ricca di struggenti immagini, fra un presente annoiato vissuto nel languore / del meriggio, scandito dal tonfo di ghiande, e la gioia / estasi d’oblio, come dal cielo angeli caduti oppure, in un’altra bellissima immagine, con i ricordi che t’invadono come aperti / azzurri oblò.
Questa poesia è parola di mani, finalmente svelata nel titolo dell’ultima raccolta, a cercare la verità come solo una madre può fare, la nuda verità con mani pudiche, l’essenza delle cose originarie, sia che siano mani buone di farfallina o cattive di vampiri, purché raccontino i valori essenziali, in costante ricerca di un contatto con gli uomini e le cose. Anche se, magari, si scopre che è l’assenza di un confronto reale, su rive solitarie, di un irrealizzabile incontro di volontà e di ricordi a segnare le distanze in questa profonda ricerca interiore, ad evocare quel silenzio dei vecchi ponti, che coccola, ninna, come suggerisce il poeta, il languore interiore nel buio interrogante, disturbato altrove dal gregge brulicante.
In questo strano abbandono del poeta, segnato dalla lotta, dalla vita, dagli scogli tenebrosi e duri, come la barca che giace nell’arsenale, caratteristica dell’ultima raccolta, le cose sembrano comunque ancora fermamente appartenergli, come nel verso massimo e finale dell’opera precedente, È mia la mano alta sul podio oppure il grido della presente, mano / alla prua, / occhi lontano, a significare il primato della sua Poesia sugli uomini e le cose, a far vincere il sogno, nell’inconsapevole prodigio dell’atemporaneità dei ricercati versi, come perle di luce che sprofondano nel buio / risalgono festanti, / pronte ad offrirsi / a stive vuote.
Come la luce, le mani e le parole di Innocenza spogliano le cose e le coscienza degli uomini – fratelli nel divenire – delle loro vesti inutili, a cercare la nudità intesa come essenza (Nudo / di / candore), concretezza priva di convenzioni o inutili sovrastrutture, per la quale valga veramente la pena di vivere: timorosa / la luce / sfiora / quel nudo.
Quella di Scerrotta è una poesia mediatrice, ricerca inconsapevole di un punto di passaggio, di un guado, di una chiave di lettura, di una luce di fuga fra terra e cielo, fra una realtà anche cruda e noiosa – vista come il tempio oppure la rovina dell’ultima lirica di questa recente raccolta – e un anelito di leggerezza, in un lungo meditare che la parola consola, affinché la crisalide possa diventare farfalla o il marinaio volgere al largo la prua, teso all’ascolto.
Nel chiaro scuro della luce filtrata dalle imposte che sfiora le cose, come in una sua precedente lirica, l’autrice sembra aprirsi ancora alla speranza, alla gioia a cui spuntarono le ali, quando ancora nulla sapeva di paziente attesa, per appropriarsene, superata la corporeità terrestre, in una gioia senza cielo “profondamente mia” come tiene a ribadire nella sua poetica, volta alla conquista di una atemporaneità che non sia soltanto nel sogno, ma con la Poesia sopravviva nella vita reale, ferma con la mano alla prua, anche se talvolta lamenti / fra scogliere e baie e s’abbandoni alla tristezza d’onda / su rive solitarie.
Data recensione: 01/01/2011
Testata Giornalistica: Il Filo Rosso
Autore: Nicola Baronti