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I tempi cambiano, ma il culto dei santi sembra immutabile. La canonizzazione di Wojtyla, Padre Pio, le decine e decine di «new entry» (soprattutto durante il pontificato di Giovanni Paolo II),

I tempi cambiano, ma il culto dei santi sembra immutabile. La canonizzazione di Wojtyla, Padre Pio, le decine e decine di «new entry» (soprattutto durante il pontificato di Giovanni Paolo II), la popolarità di figure spirituali carismatiche come quelle di Giovanni XXIII o Madre Teresa di Calcutta, sono il segno non solo di una tensione religiosa evidentemente ancora diffusa, ma anche del fatto che santi e beati rispondono, forse, a qualche bisogno ancestrale – di protezione, di affidamento. O magari, in quanto «surrogati» in salsa cattolica dell’antico panteon politeistico, che il loro habitat ideale è proprio la nostra società «idolatrica». È il parere di Miguel Gotor, storico, autore di uno dei saggi del nuovo volume edito da Polistampa («La santità. Ricerca contemporanea e testimonianze del passato», a cura di Sofia Boesch Gajano).
Professor Gotor, se è vero, come sostiene la Chiesa, che la nostra è una società materialista e secolarizzata, da dove nasce questa domanda diffusa di santi?
«Non è affatto vero che questo tipo di società abbia perso il senso del sacro, o non avverta più il bisogno di credere in qualcosa di soprannaturale e in un intermediario fra cielo e terra, cui affidarsi nei momenti difficili. Al contrario, ne ha molto più di quanto si creda».
Ma cosa si deve intendere, oggi, per santità, se forme di culto tradizionalmente tributate ai santi cristiani vengono trasferite anche a «idoli» come le rockstar, o qualche principe di turno?
«Io penso che la proclamazione dei santi sia sempre stata un gigantesco tentativo culturale e antropologico di soddisfare, nel passaggio al monoteismo, il bisogno politeistico dell’uomo. E dunque non dobbiamo stupirci che questo fenomeno conviva, poi, con forme di idolatria innescata dal fascino carismatico di personaggi mediatici, dal grande idolo sportivo, alla star del rock, a lady Diana. Si potrebbe forse dire che i santi resistono perché rispondono allo stesso bisogno fondamentale di idoli, e che la produzione di santi da parte della Chiesa rappresenta la sua risposta ai nuovi idoli che hanno invaso il campo».
Resta che le canonizzazioni degli ultimi pontificati sono state addirittura più numerose che in passato. Come è possibile?
«Da un lato si può pensare a un compimento del Concilio Vaticano II, che ha spinto a offrire ad esempio di virtù il comportamento quotidiano di persone qualunque, non solo religiosi o preti ma anche laici. Sebbene un eccesso di riconoscimento rischi di svalutare le stesse canonizzazioni, un modo per dire che la santità può essere di tutti, oltre che per rispondere alle domande che salgono dalle comunità locali».
Dunque, per la Chiesa, un segno di vitalità positiva?
«Non solo. Se il ‘900 ha avuto canonizzati quasi tutti i papi, è stato sia per un effetto di lungo periodo della legislazione centralistica avviata dal ‘700, che per un bisogno di carismi mediatici che è più probabilmente sintomo di crisi. Offrire direttamente i capi come oggetto devozionale è molto più facile e immediato, ma anche un messaggio verticistico che segnala la difficoltà della Chiesa di farsi plurale».
Data recensione: 28/06/2011
Testata Giornalistica: La Repubblica
Autore: Maria Cristina Carratù