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Soffio di vento leggero […], comunemente residuo di tempesta» è ciò che si legge sul dizionario, alla voce “refolo”. E appunto Refoli di fotografia futurista è il titolo della recente raccolta di Lucio Trizzino

Soffio di vento leggero […], comunemente residuo di tempesta» è ciò che si legge sul dizionario, alla voce “refolo”. E appunto Refoli di fotografia futurista è il titolo della recente raccolta di Lucio Trizzino, un raffinato volumetto di foto in bianco e nero delle Edizioni Polistampa uscito nell’ottavo decennale del Manifesto della Fotografia Futurista (1930).
Se nella precedente antologia, intitolata Luogo di luoghi comuni (2008), Trizzino aveva mostrato l’altra faccia dell’umanità “regolare” ovvero ritratti sui generis di “indesiderati” («“disappartenenti” alla vita»), di cui si ricordano tra gli altri un postmoderno Antonello da Messina in giubbotto di pelle (Mx) e un Munch con sigaretta (Michel), come pure la cavalletta sulla mano vissuta di un uomo tornato bambino (Amichetta) o la dolcemente saggia – ma non per questo meno sofferta – espressività di una Claudia Cardinale tzigana (Pallina), in questi suoi Refoli l’autore ordina sedici scatti seguendo passo passo gli altrettanti punti (messi, volta a volta, in evidenza) del suddetto manifesto, riportato a fronte di ogni fotografia.
Come afferma giustamente Mario Graziano Parri nella sua puntuale introduzione, che ricostruisce la temperie culturale in cui si radica il pensiero marinettiano, non è che Trizzino «si sia messo in giro con il preciso proposito di applicare à rebours dogmatismi e liturgie […]». Questi scatti se li è trovati «realizzati occasionalmente in vari momenti, gli è bastato ripescarli dal suo sterminato archivio e riesaminarli con la lente di quell’estetica della massima libertà e della originalità spontanea assurta a sinonimo di modernità tout court».
Ecco allora sintesi perfette – per nulla “neo-classiche” – di quella misteriosa «coincidenza di più fattori» che è la fotografia: «premonizione, sensibilità, tempismo, praticità, tecnica, pazienza, e un punto di vista personale», un occhio «che isola e scompone ciò che vede per ricomporlo in un unicum, nelle giuste luci e nell’essenziale momento». Come Trasmissioni (p. 17) ad esempio, scorcio esterno del Palazzo delle Poste di Palermo: una fuga prospettica di linee, luci, ombre, volumi ritmati in verticale e orizzontale che, in apparente antitesi eppure uniti dalle diagonali di un corpo in movimento, richiamano l’inquietudine del De Chirico di Mistero e malinconia di una strada (1914). O come Tigrotto (p. 15) e Idea (p. 29), dove attraverso un gioco di riflessi l’autore sembra quasi dialogare con van Eyck e il Parmigianino.
Siciliano nato a Gorizia – come ama definirsi –, vissuto fra Palermo e Agrigento, da più di un ventennio a Firenze, «architetto storico del territorio, che ha diretto restauri di grandi monumenti classici e arabo-normanni e scritto di architettura e di archeologia », Trizzino è un «intellettuale della macchina fotografica», cui si dedica come «secondo mestiere prediletto». Si potrebbe allora continuare coi richiami o accostamenti, ad esempio tra lo Sbarbaro di Trucioli (1920) – si noti l’affinità con Refoli – e lo sguardo demistificatore, “asciutto”, quantunque immaginifico, della spirale manieristica di Snodi (p. 25), inchiodata sul letto di Procuste: «Taci, anima stanca di godere | e di soffrire (all’uno e all’altro vai | rassegnata). | […] | Giaci come | il corpo, ammutolita, tutta piena | d’una rassegnazione disperata». Nel pathos raggelato di Paziente (p. 39), crudezza della fragilità disarmata, pietas, come non scorgere il Viatico (1922) di Rebora? «O ferito laggiù nel valloncello, | tanto invocasti».
Pare comunque sia Musa, come sottolinea Parri, «l’immagine che con maggiore dovizia di effetti e di riferimenti riassuma quella “essenza interiore delle cose” che già nel 1911 aveva teorizzato Anton Giulio Bragaglia». In essa, infatti, «si possono riscontrare i punti di arrivo e di sviluppo successivo della ricerca dei Bragaglia [Anton Giulio e il fratello Arturo, N.d.R.]: qui la trasparenza prende il posto dell’apparenza, oggetto e figure tendono alla trasfigurazione. La rapidità di spiazzamento esalta la immaterialità delle immagini, i loro simulacri fotografici si sovrappongono e si fondono, creando, come concepiva Anton Giulio, “dissolvenze e compenetrazioni di figure e eventi” (Fotodinamismo, 1911). Insomma è la sintesi di quel “vorticismo” che Marinetti affermerà nel manifeste technique del 16 aprile 1930 elaborato con Tato (il bolognese Guglielmo Sansoni) a fondamento dei principi della nuova estetica della “visione”. Mescolanze, contrasti, camuffamenti, spettralizzazioni, fusioni, inclinazioni, sospensioni, compenetrazioni, sovrapposizioni, ingigantimenti, simbolismi, intensificazioni che “hanno lo scopo di far sempre più sconfinare la scienza fotografica nell’arte pura”».
Piace inoltre soffermarsi su Effusione (p. 23), sorta di “quiete dopo la tempesta”, i cui “refoli” sfiorano lievissimi la superficie delle acque. Una dimensione incantata, rarefatta; uno di quei sogni all’alba, che distendono al risveglio fronte e labbra. «Nella brezza fragrante a Foce d’Ombrone | […] | in un chiaroscuro di ombre remoto», c’è un’«attesa senza misura nel cerulo | cerchio dell’airone, un esulare | piano e senza suono | […] | […] fra acqua e cielo».
Ancora una nota. Se dalla riproduzione miniaturizzata, in copertina, di Trasmissioni la figura umana in movimento, che fungeva da raccordo tra i diversi piani, è scomparsa, sul frontespizio appare Androgino (v. pure p. 33), evidente rimando al mito di Ermafrodito, simbolo dell’amorosa quanto drammatica compresenza dei contrari – o complementari. Emblema, forse, della potenza creatrice dell’arte, che tutto abbraccia e trascende. Ma anche – proprio per questo – soglia, esperienza umana del limite. «Codesto solo oggi possiamo dirti,» ricorda Montale: «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
Non chiederci la parola. Solo, un’immagine.
Data recensione: 01/01/2010
Testata Giornalistica: Caffè Michelangiolo
Autore: Davide Torrecchia