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In quella che Eric Hobsbawm definisce come “l’età degli imperi”, vale a dire il turbolento quarantennio grosso modo compreso il 1875 e il 1914, nella vicenda dell’architettura occidentale i concorsi assumono un ruolo fondamentale

In quella che Eric Hobsbawm definisce come “l’età degli imperi”, vale a dire il turbolento quarantennio grosso modo compreso il 1875 e il 1914, nella vicenda dell’architettura occidentale i concorsi assumono un ruolo fondamentale, per molti motivi: ridisegnano il rapporto tra i tecnici e la committenza, e al contempo tra l’architettura e la politica; danno luogo a un nuovo tipo di rapporto con il pubblico e con la stampa; assumono un ruolo centrale nell’incipiente formazione di una moderna classe professionale, attorno a riviste specialistiche o ad organizzazioni di categoria; condizionano il dibattito sullo stile; contribuiscono non poco a mantenere centrale il ruolo del disegno, in forme grafiche sempre più artistiche e pittoriche piuttosto che tecniche.
In una mentalità fortemente influenzata dal positivismo e dal pensiero liberale, il concorso sembra garantire, o quanto meno rappresentare, una certa probità procedurale, assicurando che dalla competizione correttamente aperta emerga il prodotto migliore; e al contempo, attraverso i suoi rituali, assicura una cospicua partecipazione del pubblico e della stampa, procurando adeguato risalto ai programmi architettonici di un ente. A prescindere poi dal fatto che una volta espletato, ciascun concorso inevitabilmente faccia sorgere polemiche, accuse di irregolarità, sospetti di favoritismi e quant’altro, e che per ciascuna gara venga ex-post individuato uno o più vincitori “morali” diversi dall’effettivo assegnatario del premio.
In ogni caso, ancor prima che la scelta di questo o quel progetto, di questa o quella iconografia, il ricorso al concorso entra a far parte delle politiche degli stati, e del dibattito sullo stile nazionale, come dimostra tra l’altro la stagione italiana degli anni Ottanta, nell’età della sinistra e soprattutto crispina, sui temi dei nuovi simboli di Roma capitale. Una stagione segnata da cosi così tante querelles sui concorsi, da così tanti fallimenti, ripensamenti, reiterazioni, così numerose “deliberazioni sospensive” (secondo le parole di Boito), da risultare alla fine fallimentare. Tanto che, dopo ben quattro concorsi sul tema di adeguati spazi per il parlamento, nel 1904 si preferirà affidare per incarico diretto la progettazione della nuova aula di Montecitorio a Ernesto Basile, protagonista di spicco in tante gare per Roma capitale, talora assai vicino alla vittoria.
Naturalmente, la questione non cambia se si guarda ai concorsi dichiaratamente internazionali. La coppia oppositiva nazionale/internazionale è di per sé tema centrale e costante nel dibattito sui concorsi: e basti pensare alla vittoria “improcedibile” del francese Henri-Paul Nènot nel monumento al padre della Patria italiano, o anche al dibattito sull’“internazionalismo” nell’ambito del concorso per il palazzo delle Nazioni a Ginevra del 1926-27.
Tra fine Ottocento e inizio Novecento, una fase in cui, per lo più i vari grandi concorsi in occidente – da quello per il Reichstag a Berlino a quello per il Vittoriano a Roma, da quello per la Borsa di Amsterdam a quello per il Municipio di Stoccolma – sembrano soprattutto occasioni per precisare le iconografie del nazionalismo architettonico, fanno la loro comparsa i concorsi dichiaratamente internazionali: e non per caso normative e procedure per i concorsi saranno temi sui quali a principio del nuovo secolo si confronteranno le nascenti organizzazioni sovranazionali di architetti, e in particolari dei CIA, Congrès Internationaux des Architectes. Per lo più i concorsi internazionali fanno capo per così dire a un certo colonialismo culturale: all’esigenza cioè di dotarsi di edifici auspicabilmente di grande qualità in paesi privi di scuole prestigiose di architettura, nei quali peraltro vige la prassi del ricorso ad architetti stranieri, ed europei in specie: ed è appunto il caso di cui si occupa lo studio di Milva Giacomelli. Solo in circostanze più rare, come sarà nel concorso per il Palazzo della Pace all’Aia del 1905, i confronti “mondiali” nascono dall’esigenza di apertura internazionale a sedi di istituzioni di carattere sovranazionali. In tutte queste occasioni però, là dove le giurie comprendono rappresentati di vari paesi, il nazionalismo architettonico gioca di sottofondo, nella tendenza dei giurati a scegliere progetti di connazionali: come accade appunto al Cairo, dove il prolungato ritardo del giurato Basile sembrerebbe fornire il destro al francese Honoré Daumet di chiudere presto il giudizio con un trionfo dei concorrenti francesi.
Nell’ambito di recenti studi su specifici ed emblematici concorsi di architettura, quello del 1894-95 per il Museo del Cairo non era stato fatto oggetto di alcun approfondimento specifico: ed un primo merito dell’autrice è quello di aver ricostruito in maniera attendibile una vicenda di grande interesse, ricorrendo a plurime fonti, italiane e straniere, pubbliche e private, a documenti ufficiali e anche “ufficiosi” che, non di rado, proprio nel caso dei concorsi sono l’elemento essenziale per comprendere come davvero si svolsero vicende tormentate, intricate e talora direi “avvelenate”: e basti pensare alle lettere di Selvatico a De Fabris per quanto riguarda i fatti del concorso per la facciata del Duomo di Firenze, o al taccuino di Karl Moser per comprendere davvero i retroscena dell’esito del concorso per il palazzo delle Nazioni a Ginevra. Nel caso in questione, accanto ad altre fonti, sono delle bozze annotate di un testo redatto da Basile e mai dato alle stampe, a consentire alla studiosa di ricostruire con accuratezza filologica e intelligenza critica una vicenda importante, soprattutto in relazione alla nutrita partecipazione italiana. Se inevitabilmente alcuni tasselli sono destinati a rimanere lacune, come sempre accade in questi pur approfonditi lavori di scavo documentario, il volume – pur godibile come la lettura di un ben orchestrato giallo, pieno di indizi ambigui e prove non coincidenti, o di una avvincente spy story, ricca di colpi di scena e di tarme diplomatiche – offre molti spunti e riflessioni che vanno anche al di là della specifica vicende analizzata. I temi affrontati o semplicemente toccati, infatti, sono notevoli e riguardano alcuni nodi centrali della cultura eclettica. In particolare, va segnalato il dibattito che emerge in filigrana tra le ricorrenti soluzioni “neoegizie” proposte dai concorrenti italiani e i relativi, severi giudizi di Basile: al tema dell’identità nazionale, sotto forma di stile rappresentativo, si oppone l’istanza di appropriata funzionalità legata al tipo edilizio; alla prassi – assolutamente tipica – di un museo ambientato, si oppone l’esigenza di un contenitore moderno che resti distinto dal contenuto. Ma su un piano storico più generale, la vicenda, ricostruita anche attraverso le fonti ministeriali e diplomatiche, documenta un frammento significativo dei rapporti tra l’Egitto dell’epoca e le nazioni europee, nell’ambito quanto meno di un certo colonialismo culturale.
Data recensione: 16/02/2011
Testata Giornalistica: Evolving Heritage
Autore: Fabio Mangone