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Pizzuto, Joyce di Sicilia, titolava Franco Cordelli in un suo intervento pubblicato sul «Corriere della Sera» a venti anni di distanza da quel fondamentale “esercizio” con il quale Gianfranco Contini consacrava sullo stesso quotidiano la grandezza

Presso le edizioni Polistampa di Firenze sono stati ripubblicati gli ultimi testi letterari dello scrittore siciliano, con la fondamentale curatela filologica e critica di Gualberto Alvino. Quando uscirono a metà degli anni ‘70, questi scritti furono pressoché ignorati, eppure si tratta nel complesso di un’opera non soltanto innovatrice, ‘ma tra le più ponderose dal punto di vista filosofico e tra le più sconcertanti sul piano linguistico’. Attraverso il commento del suo infaticabile chiosatore, il nostro Joyce palermitano si conferma il più radicalmente sperimentale prosatore del Novecento.
Pizzuto, Joyce di Sicilia, titolava Franco Cordelli in un suo intervento pubblicato sul «Corriere della Sera» a venti  anni di distanza da quel fondamentale “esercizio” con il quale Gianfranco Contini consacrava sullo stesso quotidiano la grandezza, fuori canone e fuori  formato, dello scrittore palermitano. Di Pizzuto, si era cominciato a parlare nel 1959, dopo la pubblicazione di Signorina Rosina, edito nella «Collana Narratori» della Lerici per volontà di Mario Luzi e di Romano Bilenchi. Allora, insigni critici (da Eugenio Montale a Giorgio Caproni, da Luigi Baldacci a Carlo Bo) si erano premurati di segnalare quel singolare caso letterario: l’esordio di uno scrittore sessantaseienne, che proveniva da una carriera burocratica nella Polizia di Stato, terminata pochi anni prima della pensione con il grado di vice presidente della Interpol.  Ritiratosi a vita privata, l’ex commissario Antonio Pizzuto aveva finalmente iniziato a coltivare a tempo pieno la sua segreta aspirazione, alla quale ben poco si era potuto dedicare fino a quel momento. E aveva cominciato a scrivere, rivelandosi un vero, un compiuto scrittore. E che scrittore: erudito, multilingue (in passato, tra le altre cose, era stato traduttore di Kant), impervio, sperimentale – forse, si pensa oggi, il prosatore più sperimentale del Novecento –, e convinto fautore di una radicale riforma della narrativa meditata fin dalla giovinezza e da allora perseguita con puntiglio istruttorio nei pochi momenti lasciati liberi dalla professione di inquirente.
La carriera di Pizzuto come autore sarebbe stata però meno fortunata di quella nella Polizia: allo scrittore, che continuerà strenuamente ad attendere al suo vero lavoro sino alle soglie della morte, arriderà solo quel successo, parco ed elitario, che viene tributato agli scrittori difficili, troppo impegnativi e “abissali”, che non si concedono ad una lettura frettolosa e superficiale. Giustamente, uno dei suoi più fedeli estimatori, Gualberto Alvino, parlava, qualche anno fa, dei «leggendarî  inediti pizzutiani dell’ultima ora», quelli in cui le «tensioni onomaturgiche» della scrittura producono un oggetto linguistico «sempre meno confinabile nell’ambito angusto della definizione univoca e perentoria, vettore di una evasività semantica e di una ambiguità metaforica senza precedenti nella storia della nostra lingua letteraria».
Ad una di queste opere innovatrici, semidimenticata ma tra le più ponderose dal punto di vista filosofico e tra le più sconcertanti sul piano linguistico, è dedicata l’ultima fatica di Alvino, uno studio che presenta la riedizione complessiva, critica e commentata delle Pagelle (Firenze, Edizioni Polistampa 2010, con il patrocinio della Fondazione Antonio Pizzuto).
Le Pagelle, che rappresentano un momento capitale dell’evoluzione stilistica di Pizzuto, «furono pubblicate in due volumi di venti componimenti ciascuno (Pagelle I e Pagelle II) dal Saggiatore di Alberto Mondadori rispettivamente nel 1973 e nel 1975» e furono salutate dalla critica con un silenzio siderale. Vero è che la stampa, licenziata ma non sorvegliata dall’Autore, era talmente sciatta da presentare un testo a tratti pressoché indecifrabile. Ma il punto, in realtà, stava ancora una volta nella complessità del dettato e del soggiacente pensiero di Pizzuto, che Contini paragonava a Gadda, giudicandolo uno scrittore traumaticamente perfetto, catafratto in una maturità stilistica che, con la scrittura, non ingaggia sfide che non siano radicali. Al lettore, al critico, e tanto più al commentatore, non resta che scendere sullo stesso terreno,  che non consente sviste né distrazioni, ed esige invece una immersione totale, assoluta: una abnegazione da alchimisti e una attitudine da palombari. Una attenzione e un impegno, insomma,  che pochi sono disposti a concedere.  Va detto però che i rari adepti di Pizzuto sono ricompensati ad usura dalla ricchezza che si dispiega dalle sue smilze paginette, la cui “spiegazione” richiede lunghe distillazioni. A proposito di Pizzuto, infatti, non è fuori di luogo il rimando all’alchimia. Solve et coagula e viceversa: più che mai, nel suo caso, si tratta di sciogliere e ricondurre a contenuto interpretabile ciò che egli, con paziente intuizione,  ha decantato e rappreso in concrezione linguistica, in enigmatico neologismo, in amletica anfibologia.
Ed ecco dunque l’importanza di un  filologo ispirato, di un’opera che disveli  l’opera. Oggi, Alvino ci consegna 344 pagine di meditazione su quaranta Pagelle: un apparato critico puntuale e illuminante, frutto di una collazione, soprattutto intellettuale, dei manoscritti e delle versioni pubblicate, completo di un Glossario ed equipaggiato dalla rendicontazione minuziosa delle varianti, essenziali a comprendere il senso recondito di quella  trama di rimandi e rivelazioni di cui  sono intessuti i testi di Pizzuto, veri puzzle mentali, anarchici  e spiazzanti. L’ossessione correttoria, la raffinazione maniacale della forma non sono in Pizzuto procedimenti occasionali o accessori: fanno bensì parte, come spiega il curatore, di «un sistema di interazioni e gemmazioni esponenziali»,  atto a produrre la «accensione fulminea, poco meno che mistica» dell’intuizione, e a generare «epifanie che si ripercuotono a domino sull’intero movimento correttorio dirottandone il corso, come le increspature che si formano in un campo elettrico quando la carica si muove all’improvviso».
Gualberto Alvino è noto da tempo per la completezza, l’accuratezza  e la perspicuità dei suoi studi pizzutiani, che proseguono, con immutata dedizione e, verrebbe da dire, con immutato amore, attraverso i decenni. Ma è forse  giunto il momento di sottolineare che il suo lavoro, apparentemente ingrato, di infaticabile chiosatore, di accanito filologo, di scrupoloso auscultatore, è riscaldato da una empatia e da una passione ermeneutica  che travalicano  il piano dello studio accademico e che si accrescono con gli anni. Gualvino insegue la poesia nelle pieghe del ductus pizzutiano, e non nasconde l’ammirazione per il suo oggetto di studio, nella consapevolezza che «scrivere è per Pizzuto non una sospensione d’esistenza, né pausa o nido scavato a forza nella vita, ma l’unica possibilità di vivere in autenticità e plenaria coscienza, [...] attraverso il supplizio dei ripensamenti, [...] sotto il segno della più sfibrante fatica fisica, mai scansata con artifici e scorciatoie che pure non sarebbero mancati a un ingegno di quell’altezza, sì pervicacemente cercata quale unico varco per giungere al cuore delle cose». L’unica prospettiva, crediamo con Alvino, per cui valga la pena scrivere.
Data recensione: 01/01/2011
Testata Giornalistica: Le Reti di Dedalus
Autore: Simona Cigliana