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Fu accademico della Crusca e patriota, raccolse i Proverbi toscani, scrisse la Cronaca dei fatti di Toscana (ristampata di recente da Polistampa) e ha al suo attivo un ragguardevole epistolario; ma la sua fama resta affidata soprattutto agli Scherzi.

Ripubblicati a cura di Elisabetta Benucci ed Enrico Ghidetti gli “scherzi” del poeta e patriota
Fu accademico della Crusca e patriota, raccolse i Proverbi toscani, scrisse la Cronaca dei fatti di Toscana (ristampata di recente da Polistampa) e ha al suo attivo un ragguardevole epistolario; ma la sua fama resta affidata soprattutto agli Scherzi. Poeta satirico per antonomasia, Giuseppe Giusti – nato a Monsummano nel 1809 da una benestante famiglia di possidenti da poco innalzati al rango nobiliare, laureato in legge a Pisa nel 1834 e dedito a una vita gaudente e sregolata, che gli procurò non pochi litigi con il padre – si trasferì a Firenze per fare l’avvocato, entrando in contatto con Gino Capponi, esponente di spicco del liberalismo, già fondatore con Giovan Pietro Vieusseux della Antologia. Tra i suoi rari viaggi e soggiorni fuori Toscana quello del 1845 a Milano, dove incontrò Alessandro Manzoni che volle il consacrato «toscano Aristofane» (in confidenza «Geppino») suo ospite. Già da tempo Giusti aveva cominciato a scrivere poesie satiriche che chiamava «scherzi»: riscossero notevole successo, circolando dapprima in forma privata, in versioni manoscritte o semplici fogli volanti. La sua fama di poeta si estese, fino ad arrivare, oltre che ai «falsi», alla pubblicazione della prima raccolta a stampa autorizzata del 1844 e a quelle successive del 1845 e del 1847: Versi e Nuovi versi, secondo il titolo della pregevolissima edizione odierna a cura di Elisabetta Benucci ed Enrico Ghidetti, pubblicata a Firenze da Rm Print.
Gli «Scherzi» – tra i quali Sant’Ambrogio, Il brindisi di Girella e Il Re Travicello – rappresentano un fulgido esempio di satira acuta, attenta alle dinamiche psicologiche umane, non meno che a quelle politiche e di costume. Giusti adopera la sferza dell’ironia e dell’umorismo, lasciando libero corso a quella «lama che natura gli aveva posto fra labbro e labbro», per dirla con il suo antologista novecentesco Aldo Palazzeschi. L’impegno politico diretto lo vide deputato durante i moti del ‘48, quando il Granducato diventò Stato costituzionale, Ma con il ritorno del Granduca Leopoldo II sostenuto dagli Austriaci, preferì ritirarsi a vita privata. E il precario stato di salute lo portà alla morte, il 31 marzo 1850. Come scrisse di lui Arrigo Cajumi: «Ad assicurargli un posto sicuro nel pantheon letterario, valsero lo studio e l’amore ch’egli dedicò all’arte sua, lo scrupolo di cesellare il verso, lo sforzo di suscitar immagini vaghe e originali, scorci ed effetti potenti. E se ci mettete la passione d’italiano ch’egli ebbe, la chiarezza con cui interpretò e ritrasse una società molto simile all’odierna, siete certi di aver di fronte un piccolo classico. Giusti? È ancor vivo».
Data recensione: 23/12/2010
Testata Giornalistica: La Nazione
Autore: Marco Marchi