chiudi

Il progetto “Opere complete” di Giuseppe Brancale (1925-1979), edite da Polistampa con il patrocinio della Regione Basilicata, giunge alla terza tappa. È uscito proprio in questi giorni il romanzo inedito ‘Fantasmi che tornano’, un “giallo” che si svolge

La storia di un giudice che ha condannato un amico d’infanzia per un delitto commesso sull’Agri. L’intervista al curatore Luca Nannipieri
Il progetto “Opere complete” di Giuseppe Brancale (1925-1979), edite da Polistampa con il patrocinio della Regione Basilicata, giunge alla terza tappa. È uscito proprio in questi giorni il romanzo inedito ‘Fantasmi che tornano’, un “giallo” che si svolge nella valle dell’Agri, tra Orsoleo e il Pertusillo, e l’Enel ne ha sponsorizzato la pubblicazione. Tre tappe, mentre emergono nuovi inediti ed è in ponte il quarto volume comprensivo del romanzo ‘Lettere a Michele’ – una cui edizione, ormai introvabile, risale al 1977 – e dei racconti. Del progetto è curatore Luca Nannipieri, direttore del Centro studi umanistici dell’Abbazia di San Savino. Gli abbiamo rivolto alcune domande sullo scrittore autore de ‘Il rinnegato’, ‘Echi nella valle’ e ‘Fantasmi che tornano’.
Il nuovo romanzo “Fantasmi che tornano” vede il protagonista, il giudice Andrea Casalese, tornare in Val D’Agri dopo tanti anni e rimanere colpito dalle modifiche del proprio territorio. Se Giuseppe Brancale attraversasse la sua valle, il suo paese, quali mutamenti lo potrebbero affascinare oppure rattristare?
«Le percorrenze sono molto cambiate dal tempo in cui è vissuto Giuseppe Brancale. Andare in macchina da Sant’Arcangelo a Tursi una volta era un viaggio, ad esempio tra la fine degli anni Cinquanta e i Sessanta, il periodo in cui si svolge il romanzo. Dunque la rete stradale è migliorata e questo è un sollievo non da poco. La natura e i luoghi hanno mantenuto la loro bellezza e deve essere incoraggiata la loro cura per evitare abusi o speculazioni. D’altra parte, come ha osservato Maria Pina Ciancio, nei paesi è come se ci si fosse svuotati, dimezzati. L’onda lunga dell’emigrazione, che ha abbracciato a suo tempo lavoratori e studenti, intere famiglie, non è stata ancora recuperata ma una certa vitalità tanto a Potenza che a Matera, dove si incontrano molti giovani, fa guardare con fiducia al futuro. La presenza dell’Università e la valorizzazione del patrimonio culturale significano molto: fino a tutto il periodo degli anni Settanta tutto questo non c’era. Oggi c’è una nuova classe dirigente».
La Diga del Pertusillo e la sua costruzione sono parte integrante della storia. All’epoca un cambiamento volto all’industrializzazione, un mutamento che avrebbe cambiato le abitudini dei contadini. Oggi quell’invaso fa parte integrante del territorio, le nuove generazioni non possono immaginare la valle senza la sua presenza ed è il Pertusillo una delle perle turistiche. Eppure si tende a preservare quanto presente, si cerca di rivalutare le tradizioni per crescere. È come se quanto descritto da Brancale si fosse invertito, si guarda al passato per il futuro?
«La diga del Pertusillo fu costruita dal 1957 al 1962 per alimentare le Centrale dell’Enel e segnò per molti versi l’avvento dell’energia elettrica nel territorio, con non pochi e paradossali problemi, invece, per l’erogazione dell’acqua, che veniva portata in Puglia e arrivava a singhiozzo nelle case della valle dell’Agri. Poi le cose sono migliorate. La diga segnò un mutamento in profondità - sparirono traversari, spaccalegna, conduttori di carri – che le vicende di ‘Fantasmi che tornano’ colgono all’interno della trama del romanzo, che si svolge in quella valle, tra Sant’Arcangelo, il monastero d’Orsoleo e l’Agri, in quella parte più prossima alla diga, che l’autore, ritirandosi spesso lì per scrivere e frequentemente con l’amico di sempre, il medico Michele Di Gese, chiamava ‘Paravisiello’. Circa il rapporto passato-futuro è essenziale la preservazione delle tradizioni, dell’arte, della cultura, purché non diventi sinonimo di musealizzazione o una forma rilanciato il Pertusillo nelle chiave che lei descrive è giusto: è guardare avanti, senza dovere rimpiangere le piene distruttive dell’Agri».
Dalla natura alla storia, quella di Santa Maria d’Orsoleo. Mentre le scelteamministrative puntano a farlo diventare un piccolo attrattore della valle, Giuseppe Brancale è precursore delle tappe. Ne parla nel testo, cerca di valorizzarlo. Gli anni 70’ sono quelli dell’abbandono del monastero, ma anche quelli dei primi passi per la rinascita. Cosa Brancale avrebbe voluto per quella struttura e perché ne parla così tanto nel volume?
«L’amore di Brancale per quei luoghi è radicato non solo nell’oggettiva bellezza del monastero, della sua posizione, dei suoi affreschi, del suo coro ligneo, che, nonostante la lunga incuria del passato, sono tornati ad essere valorizzati e proposti – ed è un bene – come polo d’attrazione. Il fatto è che a motivo dei grandi magazzini, della grande distribuzione, abbiamo un po’ perso il senso di cosa voleva dire l’arrivo e lo svolgimento di una fiera: per un bambino rappresentava non solo l’incontro con l’esito possibile di una spesa, di un giocattolo, del gelato e così via, ma anche con i cantastorie, con figure che rappresentavano una sorta di circo ambulante, con la musica e la giostra. Su questo crinale, più puramente visivo ed emozionale, se ne colloca un altro che scende più in profondità: la tradizione popolare, con le leggende, intrecciata a quella religiosa, con il culto di Maria, alla quale la fiera è dedicata svolgendosi proprio ad Orsoleo. Si guardava a Maria soprattutto come madre che condivide il dolore, protettrice, ed educatrice al rispetto della donna. La mortalità infantile nella prima metà del secolo scorso era molto alta, generazioni di donne hanno visto i loro mariti e i loro figli andare in guerra: Maria poteva capirli e custodirli. Il discorso delle fiere si collega alle celebrazioni liturgiche e alle feste dei Santi principali, Rocco e Michele ad esempio».
In una Basilicata dove nascono continue inchieste, Giovanni Cianfarone viene accusato di un omicidio mai commesso. E’ la rivalsa della giustizia, oggi, tanto giudicata e osservata da tutti. Un romanzo scritto nei primi anni 70 ma che forse può essere utile per comprendere il valore della giustizia.
«L’autore era interessato al percorso interiore della giustizia e alla compassione, vero motore della storia, che era capace di suscitare: una caratteristica di tutte le sue opera è questa scoperta dell’innocenza e delle verità degli altri – l’ingenuità e l’onestà di Sceppa Mastrandrea – proposte come valore costruttivo anche quando alcuni personaggi vengono come travolti dai fatti. Qui c’è un giudice che ha condannato un suo amico d’infanzia, per un delitto commesso sul fiume Agri, e non ha potuto fare altrimenti viste le prove che erano state portate: il giudice, il condannato, Sceppe Mastrandrea, Serracalli e altri comprimari, come l’arricchito Querciaiolo, sono voci di un romanzo corale, che avrà un esito imprevisto e a suo modo redentivo, mentre cambia un mondo intero».
Nel testo di analisi del libro, lei scrive che “Giuseppe Brancale è davvero un fervido scrittore quando abita e descrive questo particolarissimo processo: il momento in cui uno stato di cose muta per diventarne un altro”. Come ha vissuto nella sua vita i mutamenti Giuseppe Brancale?
«Alcuni li ha subìti, anche pesantamente (come la guerra), per altri ha combattuto perché si realizzassero. Da ragazzo, pur di studiare, si arruolò in Marina Militare per mantenersi agli studi allo scientifico ‘Vincenzo Cuoco’ di Napoli e di lì a poco scoppiò la seconda guerra mondiale, che lo portò da Vera Cruz in Argentina, al Nord Africa, fino alle isole Egee, costringendolo anche a fare il pugile per guadagnare qualcosa. Nel dopoguerra partecipò alla ricostruzione nell’attività politica – con le lotte scavate nel solco di Levi e Scotellaro, prima a Firenze (per un breve periodo a Bologna), quindi in Basilicata – e specialmente in quella didattica come insegnante elementare. La sua attività di educatore mirava a coinvolgere nello studio soprattutto i bambini più poveri, prima alla Spadarea di Castronuovo di Sant’Andrea, quindi a Senise, e poi a Sant’Arcangelo, fino al trasferimento a Firenze a metà degli anni Settanta, per consentire gli studi universitari ai figli. Fu un durissimocolpo per lui la perdita dell’amicoMichele Di Gese, che lo condusse, tra l’altro, alla stesura del romanzo ‘Lettere a Michele’, dove è più chiara la sua lettura spirituale della vita e della storia, maturata in un confronto tra visione cristiana e cultura storico-scientifica alle quali attingeva».
Data recensione: 16/01/2011
Testata Giornalistica: Il Quotidiano della Basilicata
Autore: Francesca Gresia