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Ad ottant’anni dal “Manifesto della fotografia futurista”, Lucio Trizzino ne rivisita la poetica con una raccolta di fotografie.

Ad ottant’anni dal “Manifesto della fotografia futurista”, Lucio Trizzino ne rivisita la poetica con una raccolta di fotografie.

Stranamente fotografia e Futurismo non si amarono a prima vista. In principio non fu l’anatema di Boccioni a condannare la nuova tecnologia, accusata di essere un medium freddo. Poi però ci fu la folgorazione dei fratelli Bragaglia, che nel 1913 trasfusero il proprio entusiasmo nel libretto Fotodinamismo Futurista, nel quale stabilirono i principi della nuova ricerca sotto il motto poetico “la vita colta nel suo apparire rapido e fugace”. La definitiva consacrazione del mezzo arrivò molto più tardi. Solo nel 1930 il Manifesto della fotografia futurista, a firma di Filippo Tommaso Marinetti e Guglielmo Sansoni, ammetteva la fotografia nell’empireo delle arti futuriste. Nell’ottavo decennale della redazione di questo documento, che aprì le porte a innumerevoli forme di sperimentazione espressiva, il fotografo Lucio Trizzino rende omaggio a questa poetica e interpreta per immagini le proposizioni di Marinetti e Sansoni, dando vita al volume (edito da Polistampa) Refoli di fotografia futurista. È una selezione di 16 scatti in bianco e nero, uno per ogni punto dello scritto futurista, nei quali l’autore cerca di attualizzare i dettami poetici del manifesto. Per parte nostra abbiamo deciso di presentare il volume concentrando l’attenzione sull’analisi di una singola fotografia, Il paziente, a nostro giudizio perfetta epitome della capacità espressiva dell’autore, nonché capace di assurgere ad emblema di questa nostra epoca.

IL PAZIENTE

«Povero Cristo», viene spontaneamente da pensare ad un primo sguardo della fotografia Il paziente di Lucio Trizzino. Come se provassimo un’umana compassione per un corpo che, proiezioni simboliche a parte, rimane sempre una scultura lignea. Tuttavia, questa immediata reazione emotiva, che costituisce un effetto pragmatico (nell’accezione semiotica) debitamente costruito dall’autore per colpire l’osservatore, rappresenta un primo prezioso indicatore emozionale di senso, utilissimo per orientare un’analisi più approfondita. Il secondo è il titolo stesso dell’opera che appunto, rinforzando l’interpretazione “umanizzante” del “paziente”, intende plasmare la visione, quasi forzarla, dentro l’analogia con il corpo ammalato di una qualsiasi persona.
Questi due elementi ci conducono quindi ad affermare che l’opera tematizza, attraverso l’analogia umanizzante, quella che potremmo titolare un po’ ad effetto “la malattia del Cristo”, con il codazzo di interpretazioni estensive che inghiottono tutto la sfera del religioso Cristiano. Insomma, malato il Cristo, malata tutta la Chiesa.
Ma come in tutte le opere ciò che fa la differenza non è il tema (che più o meno sono sempre gli stessi); ma lo svolgimento, come dicevano a scuola. Detto altrimenti, con un linguaggio un po’ più elevato, l’aspetto più rilevante della singola creazione artistica sta nell’architettura di senso che l’autore costruisce per condurre lo spettatore al nucleo di sapere ed emozione della propria opera. Il viaggio definisce il significato della meta. Perciò per apprezzare e comprendere a fondo un’opera non è tanto importante capire ciò che essa rappresenta (aspetto questo generalmente intuitivo) ma come riesce a farlo, perché ogni modo particolare arricchisce di nuovi significati il tema di partenza.
Ma torniamo a Il paziente. L’interrogazione delle figure e delle loro relazioni prende necessariamente avvio da un’incursione nell’iconografia che quest’opera suggerisce, per rendere evidente un rimando enciclopedico alla nostra tradizione pittorica che coinvolge la fotografia nel suo insieme, il cui impianto – ad onor del vero – è molto più classico che futurista, almeno sotto il profilo formale. Allargando le maglie delle convenzioni pittoriche potremmo infatti definire quest’immagine una “moderna deposizione”, dove il Cristo, schiodato dalla croce, invece di trovare l’abbraccio delle Marie si trova (suo malgrado, come dopo sarà chiaro al lettore) sopra un asettico lettino di una tac. Se potesse voltare la testa si accorgerebbe che tutto intorno a lui (la stanza, la macchina, l’uomo con il camice) è di un freddo biancore ospedaliero, una predominante cromatica che accende un primo grande stridente contrasto fra il Cristo, con il colore scuro del proprio corpo ligneo, e il resto della scena. Sempre su questo registro, ad accentuare una dissonanza plastica fra la scultura ed il contesto, interviene anche la tormentata matericità del legno, scrostato, sbeccato, forse tarlato, che di contro esalta la levigata politezza delle superfici della tac e dell’ambiente, contribuendo ad evidenziare la classica opposizione antico/moderno, vecchio/nuovo. Due mondi distanti a conflitto. Tuttavia, questa canonica e un po’ banale opposizione riceve un’inedita declinazione dal particolare incastro cui danno vita le due figure e i relativi bagagli simbolici, assai ingombranti. Il Cristo, che si presume affetto da un qualche indefinito male, è in procinto di passare dal buco della macchina per essere scansionato, analizzato, per diagnosticare – altra presunzione – quale patologia lo affligga. Non sfugge però all’occhio dell’osservatore un problema evidente, insormontabile per la tac circolare: le braccia aperte della scultura costituiscono un ostacolo tangibile, concreto. Lo stesso Cristo, con la sua testa elevata in direzione del foro, sembra segnalare una preoccupazione viva, allarmata, che diventa denuncia muta di un’impossibilità fisica, la quale si trasforma subito sul piano simbolico, in un’impossibilità metafisica, quella di cogliere la presunta malattia della dimensione religiosa (o la dimensione religiosa stessa) attraverso la Scienza, ipostatizzata nella fredda macchina diagnostica. Però, con buona pace del Cristo, alla Fisica non si comanda e la scultura non passerà che parzialmente nel budello della tac, offrendo anche alla metafisica il proprio scarto salvifico. Il rischio di finire sotto il tirannico occhio della scienza umana sembra scampato. Purtroppo per il Cristo e la religione l’uomo è creatura testarda, e in camice bianco, con atteggiamento impersonale e scientifico, sta già predisponendo un’altra macchina con la quale finirà il lavoro proprio laddove si interromperà quello della tac. Come dire: di fronte alla volontà di potenza della scienza umana non c’è Cristo che tenga. E al povero Messia non rimane che essere molto paziente.
Data recensione: 12/10/2010
Testata Giornalistica: Metropoli
Autore: Jacopo Nesti