chiudi

Il Poemetto dei bambini di Giovanna Fozzer non è solamente una sintesi essenziale, il compimento dinamico dei temi cui l’autrice ci aveva abituato nelle sillogi precedenti, è la loro sublimazione nella meta cui aspirano molti artisti: la levità riflessiva

Il Poemetto dei bambini di Giovanna Fozzer non è solamente una sintesi essenziale, il compimento dinamico dei temi cui l’autrice ci aveva abituato nelle sillogi precedenti, è la loro sublimazione nella meta cui aspirano molti artisti: la levità riflessiva. Non si tratta di una leggerezza ingenua, giovanile e irriflessa, ma della freschezza e levità di chi, avendo interiorizzato e accettato la caducità dell’esistenza, penetra tutte le forme vitali della sua consapevolezza malinconica. Una leggerezza schubertiana, dunque, meditata e autocosciente.
L’arco tematico descritto dal libro di Giovanna Fozzer parte dall’espressione sognante, che rasenta l’inesprimibile, della grazia infantile, alla finale perdita d’aura degli aspetti vitali. Perfezione senza ricerca, locuzione per dire la grazia infantile, è un concetto che finalmente ha trovato forma grazie a questa felice espressione. Come potrebbe esserci ricerca dell’aurora dell’esistenza? E, del resto, che cos’è la grazia se non la restitutio a una condizione primeva, non sfigurata dalla caduta? I bambini che affiorano dai versi del Poemetto, come corolle tenere e lievi, costituiscono l’esito estremo di tutti gli oggetti-senza-un-perché, per parole-oggetto primordiali, che popolano con strenua coerenza tutta la produzione poetica della poetessa. L’immagine salvifica, che è il fondamento strutturale di tutta la poesia della Fozzer, trova infine compimento nella figura del bambino come allegoria della grazia. Questi bimbi, ritratti in molte e variate pose archetipiche, oscillano pendolarmente tra l’essere se stessi ed immagini quasi estatiche: tracimando riempi / ogni interstizio dentro. Come nella musica di Mozart la forma classica è sempre sul punto di esplodere in excessus mentis. Musica, gioia e pace sono i pilastri dell’ordine paradisiaco, che in questi versi sembrano trovare la loro epifania visibile nell’essenza musicale dei bambini. Le immagini infantili in sequenza e il refrain variato la tua calma di fanciullo amato svelano la struttura diadica dell’ordine paradisiaco: è sempre l’Amore di un Altro, in questo caso di figure parentali, ad evocare il cosmos redento. I bimbi amati, come gli adulti, splendono sempre di luce riflessa.
Come negli sviluppi schubertiani della Unvollendete, la tessitura del verso ci conduce, per logica contrastiva, dal mondo auratico dell’infanzia all’esistenza disincantata dell’adulto, che appare perlopiù desolata dalle angustie di uno sguardo inchiodato al presente e alle sue precarie e disperanti necessità economiche. Il simbolo della banca, solitario, arido ed enigmatico riassume bene in sé questi significati. A differenza di quella dell’adulto, la vita del bambino, ancorché ritratto in attesa all’ingresso di un istituto di credito, è aperta alla dimensione della speranza e del futuro, di un lontano vivere migliore. Lo sguardo infantile è quello del sonno, del vedere senza sapere, cioè di un’apertura autentica all’essere delle cose. Nel Poemetto il bambino si fa quasi nunzio di un mondo Altro per la stessa umanità adulta che, contemplando i bambini, può bearsi nelle immagini salvifiche che calmano il cuore, anche se non può più varcare la soglia irreversibile che la riporterebbe al loro sguardo incantato. La contemplazione del paradiso perduto può dunque avvenire in modo puramente malinconico e riflessivo e non attraverso un accesso immediato ad esso, cosa che ci è strutturalmente preclusa. La leggerezza schubertiana è una levità costruita in tono minore. La dimensione aliena dell’infanzia viene tuttavia espressa da Giovanna Fozzer anche attraverso una particolare tonalità ironica. La poesia costruisce una serie vorticosa di immagini che assimilano i bimbi, per un sottile gioco analogico, a un formicolare di clown o gnomi: lettori, pittori, giocatori, i bimbi sembrano vivere un’esistenza sottotraccia, misteriosa, negata alla comprensione integrale dell’adulto, che spesso si limita a un ruolo vigile, a un rapporto esteriore, senza poter penetrare oltre la soglia del mistero dell’infanzia. L’adulto può solo cercare nell’immagine dei bambini l’immagine di noi stessi / che fummo fanciulli: ancora una volta, cioè, la partecipazione riflessa alla condizione infantile, non quella immediata. L’ironia di questa sezione del Poemetto produce anche un rovesciamento paradossale: ad un certo punto sembrano essere i bimbi ad imitare per gioco gli adulti. Anche loro cercano di partecipare alla condizione adulta, ma senza la serietà e la funzionalità dei gesti degli uomini e delle donne mature, che il gioco infantile traslittera verso altri significati, preclusi al nostro sguardo.
Le lasse del libro di Giovanna Fozzer si snodano in versi dalla misura varia, dall’andamento ora prosastico, ora lampeggiante di accensioni liriche. A questa varietà e irregolarità metrica, corrisponde la voluta variatio di immagini di bimbi, un affollarsi di schizzi, prospettive, istantanee estremamente vivace, dinamico, come una ridda di clown o di folletti. Prevalgono infatti le immagini di gruppo, più che i ritratti dei singoli, perché l’infanzia non conosce ancora quelle barriere monadiche, di natura psicologica, antropologica e sociale, che invece caratterizzano l’esistenza adulta. L’amicizia nei bambini è un affetto spontaneo, una canzone tra piccoli amici che sgorga con facilità melodica e che nulla sa della faticosa e rischiosa ricerca dell’amico autentico tipica della maturità dell’uomo. Alla musica riportano concentricamente le strofe del Poemetto, musica che potrebbe essere anche la voce dei bambini, in grado di incantare come i suoni, forse perché ci riporta, noi pellegrini disincantati del mondo desacralizzato, nella sfera dell’incanto primigenio.
Anticipata dalle immagini di morte della penultima strofa, la chiusa del poemetto vira in tono minore, con le immagini di bimbi malati e sofferenti e l’angoscioso interrogativo se siano oggetti d’amore tanto quanto i bimbi emblema di vitalità che gremivano i versi precedenti. Interrogativo reiterato anche a proposito dei fanciulli trascurati, ignorati, privati dell’affetto, che sembrano già adulti smagati e induriti. Se l’ordine paradisiaco enunciato nelle prime battute del poemetto aveva una struttura diadica, l’Amore dell’Altro, il disordine infernale degli ultimi versi ha un aspetto monadico di solitudine, abbandono, vuoto. La magica melodia tonale e lieve delle prime strofe si è estenuata e perduta in versi fonosimbolicamente duri e spigolosi, che ci consegnano aridamente alla realtà.
Data recensione: 01/01/2010
Testata Giornalistica: Erba d’Arno
Autore: Giovanni Falsetti