chiudi

Può capitare e capita, nella vita, di ritrovarsi in situazioni distanti, apparentemente contraddittorie. Di essere offesi e poi di offendere; di additare colpe e responsabilità e di ritrovarsi poi dalla parte dell’additato. Il grande Enrico Caruso, che av

Può capitare e capita, nella vita, di ritrovarsi in situazioni distanti, apparentemente contraddittorie. Di essere offesi e poi di offendere; di additare colpe e responsabilità e di ritrovarsi poi dalla parte dell’additato. Il grande Enrico Caruso, che aveva tacciato Napoli di ingratitudine, non aveva tenuto conto che il suo anatema alla città di Pulcinella gli avrebbe impedito di aderire all’offerta di Leoncavallo di diventare l’interprete principale di un’opera intrisa di napoletanità fino al collo.
E di esser visto, perciò, come l’ingratitudine in persona dall’autore che forse più di ogni altro aveva contribuito a decretarne il successo teatrale e discografico a inizio secolo scorso. I successi i sogni le delusioni : è questo il calzante sottotitolo del volume su Ruggero Leoncavallo che Mauro Lubrani e Giuseppe Tavanti hanno pubblicato a Firenze per Polistampa nel 2007. La parte forse più interessante del lavoro è proprio quella finale del bilancio di una carriera. Dopo la inebriante sera della “prima” di “Pagliacci”al Dal Verme di Milano il 21 maggio 1892 il percorso si era fatto man mano più difficile per Leoncavallo così come i rapporti con colleghi operatori editori protagonisti della scena. Anche appunto con il “suo” Enrico Caruso, magico interprete del suo capolavoro. Esattamente da quando, era il 20 luglio 1914, e si era all’Hotel La Pace di Montecatini, Leoncavallo gli avevo letto parte dell’opera “Avemaria” (dal nome della protagonista), soggetto incentrato sulle cospirazioni partenopee antiborboniche a cui stava lavorando sulla base di un libretto di Illica e Cavacchioli. L’idea era quella di affiancare al soprano Eugenia Burzio l’ugola dorata del tenore che in quell’occasione aveva a fianco il soprintendente del Metropolitan di New York, Giulio Gatti Casazza. Ma, seppur cortese, la risposta era stata un rifiuto, motivato da un’agenda d’impegni fin troppo fitta per almeno tre anni, Nuova York, Londra, Germania...
In effetti le perplessità sull’opera patriottica e “napoletana”, già espresse da Sonzogno sul piano economico, avevano, nel caso di Caruso, un retroterra dal sapore amaro risalente al distacco dalla città del golfo avvenuto dopo la stroncatura ad opera del critico Saverio Procida sul periodico “Il Pungolo”, in occasione di una sfortunata esibizione del 30 dicembre 1901 e al conseguente giuramento del tenore di non cantare più a Napoli. Un nido di memorie pareva riemergere da un passato non lontano, ma di fatto non riemerse, per l’opposizione del cantante. Il core ’ngrato sembrava stavolta, a Leoncavallo, quello di Caruso oltre che di Gatti Casazza (e indirettamente di Toscanini). “Avemaria” non meritava quei no, specie se si pensi a tutta la ricerca musicale – la ripresa di materiali folklorici sui quali aveva lavorato Leonardo Vinci, l’operista di Strongoli, per “Le zite’ngalera”e “Le grida di venditori di Napoli”raccolte da Federico Ricci – che stava comportando. Ma indietro, il grande Caruso, non tornò, non abiurò al giuramento di tredici anni prima quando garantì che sarebbe tornato in città solo per riabbracciare la madre o mangiare gli spaghetti alle vongole. E fu di parola. Solo che questa coerenza lo allontanò dal padre dei suoi adorati Pagliacci. La verità storica si presenta come un gioco angolare di specchi che ne rifrangono le immagini, le presentano uguali o contrarie, a seconda di dove si vadano a collocare. È quanto accadde a Caruso, prima accusatore poi, suo malgrado, accusato.
Data recensione: 04/07/2010
Testata Giornalistica: Calabria Ora
Autore: Amedeo Furfaro