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Viene pubblicato piuttosto prontamente in traduzione italiana un volume uscito con lo stesso titolo nel 2005 per i tipi della University of Toronto. Il saggio a sua volta riprendeva, ampliandolo, un saggio omonimo pubblicato nel 1998 sul «Journal of the W

Viene pubblicato piuttosto prontamente in traduzione italiana un volume uscito con lo stesso titolo nel 2005 per i tipi della University of Toronto. Il saggio a sua volta riprendeva, ampliandolo, un saggio omonimo pubblicato nel 1998 sul «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes» (p.53-92).
In questo piccolo libro i due autori (un rinascimentista il primo e un medievalista il secondo) prendono le mosse da  un caso di profanazione punita verificatosi a Firenze nel 1501 per interpretarlo alla luce di ciò che i documenti superstiti sono in grado di dirci sui suoi protagonisti, sul contesto generale e le possibili cause. Uno dei risultati più rilevanti a cui pervengono è la lettura, in virtù della della ricostruzione, di una delle fonti più interessanti legate a questo caso giudiziario: un dipinto coevo che ritrae in più riquadri, nello stile popolare che più tardi è stato associato all’attività dei”cantastorie”, il percorso del protagonista della vicenda, dalla causa prossima del suo comportamento alla tragica conclusione.
Il libro si articolain tre agili capitoli: “L’imputato e i suoi reati”(p.15-31), “La natura del reato” (p.33-49), “Il contesto della storia” (p.51-71), a cui fanno seguitole 28 tavole, molte a colori (p.73-100), e l’Appendice in cui sono pubblicati i principali documenti di riferimento (p.101-19).
I fatti sono rapidamente riassunti: nel luglio 1501 Antonio Rinaldeschi, appartenente a un’antica famiglia pratese un ramo della quale si era trasferito a Firenze, dopo aver giocato e perso ai dadi all’osteria del Fico, “accecato dall’ira”raccoglie da terra dello sterco di cavallo e lo lancia contro un’immagine della Madonna, imbrattandola, per poi rifugiarsi in un convento fuori dalle mura della città. Gli Otto di Guardia, magistratura secolare incaricata del perseguimento dei reati penali, a seguito di una veloce inchiesta durata pochi giorni, lo individuano e lo arrestano, mentre un suo tentativo di suicidio per disperazione (il coltello è deviato da una costola) fallisce. La sera dell’arreso il Rinaldeschi viene condannato a morte, ed è impiccato la notte stessa. A seguito dell’episodio, in una forma che si era già manifestata fin dai giorni immediatamente successivi al sacrilegio, prima ancora dell’arresto, l’immagine della Madonna, visitata e ripulita dal vicario del vescovo, diventa oggetto di un culto spontaneo che spinge alcuni laici a costituire un fondo per la costruzione di un oratorio intorno all’immagine ritenuta miracolosa. L’”Opera”così istituita, che approderà all’edificazione della chiesetta della Madonna de’ Ricci, mantiene il suo compito devozionale per tutto il corso dell’età moderna, avendo fatto produrre fin dall’inizio, insieme a una tavola di altare della Madonna, una “predella” che viene esposta ogni anno per ricordare l’episodio, la registrazione dei pagamenti al pittore che avrebbe eseguito la tavola, il testamento del padre del Rinaldeschi.
La ricostruzione a cui i due studiosi americani approdano è decisamente pertinente e tendenzialmente completa. A parte l’esatta ricostruzione dei fatti,viene finalmente fornita un’identificazione dell’autore della tavola (un Filippo Dolciati pittore minore, di cui non si conoscono altre opere), e si cerca di trovare il motivo di una conclusione altrimenti difficile da spiegare: l’apparentemente esagerata pena capitale a fronte dell’azione del Rinaldeschi. In modo convincente, il secondo capitolo passa in rassegna le possibile pene per i reati ascritti al colpevole nella sentenza (gioco d’azzardo, tentato suicidio, bestemmia), sottolineando come nessuno dei tre, in senso stretto, implicasse, all’epoca o in precedenza, la pena capitale, nel diritto canonico o in quello penale. Il terzo capitolo cerca allora di agganciare l’episodio al particolare contesto del luglio 1501 (posto appena tre anni dopo il rogo di Savonarola, poco prima della decisione di giungere al gonfalonierato perpetuo di Pier Soderini), con vari attori sociali in cerca di protagonismo: la magistratura degli Otto di Guardia, che presto sarebbe diventata l’unica depositaria dell’amministrazione della giustizia penale; il vescovado, che poteva trarre beneficio dal sorgere di una nuova devozione; lo stesso gruppo promotore dell’”Opera” della Madonna de’Ricci, nel quale gli autori riconoscono alcuni personaggi strettamente legati al Savonarola, che potevano forse in tal maniera costruire una nuova occasione di riunirsi, in un periodo in cui era stata loro proibita ogni aggregazione formale. La conclusione è che, più che la «punizione per un crimine specifico», sarebbero stati  «la devozione popolare e i miracoli che apparvero nei dieci giorni fra l’offesa di Rinaldeschi e il suo processo» decisivi nel causarne la condanna a morte, poiché «risparmiarlo...avrebbe messo in dubbio sia l’onore e il potere della vergine che la legittimità dell’adorazione [sic!] della sua immagine» (p.71).
La spiegazione è certamente plausibile. Tuttavia sospetto che la severità della condanna sia in rapporto anche con un’altra causa, forse non altrettanto sottolineata. Nonostante il titolo del libro, il principale comportamento del Rinaldeschi (sporcare con lo sterco un’immagine della Madonna) è infatti classificato nel testo come “bestemmia”(blasphemy’ in inglese: bestemmia,empietà). Mentre sarebbe più giusto considerarlo un “sacrilegio” (etimologicamente: “frutto di cose sacre”, e poi estensione “profanazione di persona o luogo o cosa sacri”), o appunto una “profanazione”. In questo senso, non solo esiste una tradizione canonica, che risale a Tommaso d’Aquino (Summa theologiae, Iia Iiae, q. 99, a.4, “De sacrilegio”; mentre gli autori citano a p.43 la q.13, a.2-3, “De blasphemia”), in base alla quale,mentre si ricorda che la pena prevista dalla chiesa per il sacrilegio è la scomunica, si giustifica la pena di morte prevista dal diritto civile con il fatto che il sacrilego non ha nella scomunica un deterrente efficace. Ma gli stessi autori citano correttamente altri casi di profanazione di immagini sacre avvenuti a Firenze nello stesso periodo, che si erano conclusi con l’uccisione, legale o a furor di popolo, dei colpevoli. Ad esempio, un marrano fu lapidato nel 1493 per aver ugualmente danneggiato più immagini sacre e sporcato con sterco una “figura” della Madonna; un giocatore, che aveva danneggiato un crocifisso con un chiodo, fu lanciato nel 1502 a Pistoia; ma anche un uomo fu impiccato a Firenze in seguito a processo nel 1503 per aver bruciato un crocifisso  e un’immagine della Madonna (p. 48-49). Questo aspetto, unito alla notevolissima nascita e diffusione di nuovi culti per le immagini a Firenze e nel territorio fiorentino fra il 1479 e il 1518, giustamente sottolineata nel libro (p. 60-61), e anche al fatto che «gli attacchi a queste pitture rivelavano una vulnerabilità che portava i fedeli a dotare le immagini di poteri compensatori» (p.62), contribuisce a spiegare l’intero episodio fino al suo estremo, ma non del tutto atipico, epilogo.
In conclusione, si tratta di un libro assai utile e ricco di informazioni su un tema (la devozione per, o la profanazione di, immagini sacre: due facce della stessa medaglia, perché entrambe fondate sulla convinzione della sacralità degli oggetti) per il quale fra l’altro si sta sviluppando un’attenzione crescente, anche per l’interesse oggettivo di fonti che spesso richiedono un approccio pluridisciplinare e l’elaborazione di metodologie di tipo nuovo. L’edizione italiana avrebbe tratto giovamento da una traduzione un po’ meno affrettata (per alcuni termini, come il caso indicato sopra,, e tempi verbali), e da una cura maggiore da parte della redazione (alcuni refusi evitabili, la soppressione di una “vedova” a p. 32 che lascia la frase sospesa a p.31).
Data recensione: 01/07/2009
Testata Giornalistica: Rivista di storia della Chiesa in Italia
Autore: Giovanni Ciappelli