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Da cantore dei giacobini a schiavo dei pirati di Algeri, è un bel salto; e se poi la storia ha avuto qualche perplessità a dire chi fosse più "turco" fra i due, per il povero Filippo Pananti non

Paolo Ciampi nel libro edito da Polistampa racconta le vicende di un toscano un tempo molto conosciuto e stimato.

Da cantore dei giacobini a schiavo dei pirati di Algeri, è un bel salto; e se poi la storia ha avuto qualche perplessità a dire chi fosse più "turco" fra i due, per il povero Filippo Pananti non c’erano dubbi; con i primi non si era scottato, con i secondi ci aveva rimesso la camicia e peggio. Un caso veramente singolare, quello del poeta mugellano di Ronta Filippo Pananti (1766–1837) oggi pressoché sconosciuto, ma un tempo stimato e riverito al punto di meritarsi un posticino tra le glorie italiche di Santa Croce. Un autore arguto e faceto, sorta di Pievano Arlotto dei suoi tempi, pronto nella vita e nell’arte allo scherzo e alla battuta: un toscano autentico, amante del buon vino e della buona compagnia. Brillava soprattutto nell’epigramma, a volte francamente osceno, a volte semplicemente burlesco, come questo: «Una donna vicina al partorire/Ponzava e dava segno di patire./Il marito esternava gran pietà/ai duoli di sua tenera metà./Gli disse allor colei: non v’affligete/perché voi colpa alcuna non avete». Proprio a un tipo come questo doveva capitare l’incredibile avventura di essere uno degli ultimi italiani a esser fatto schiavo dei pirati algerini; una schiavitù durata solo qualche giorno, ma molti suoi compagni di viaggio e di sventura non ebbero la stessa fortuna. Per una incredibile coincidenza, l’avventura di Filippo avvenne proprio nel 1813, ovvero nell’anno in cui Rossini rappresentava l’Italiana ad Algeri, il cui libretto – ispirato a un fatto realmente accaduto – tratta di una giovane e ardimentosa livornese che, fatta schiava dagli algerini, riesce a cavarsela grazie al suo spirito, facendo fare al dey d’Algeri Mustafà una formidabile figura da babbeo. Ma Filipponon era di quella tempra, né il governatore algerino in cui si imbatté er certo un babbeo...
A riportare questo simpatico mugellano alla ribalta della storia da cui è stato ingiustamente sfrattato ha ben pensato Paolo Ciampi con il libro Il poeta e i pirati. Le straordinarie avventure di Filippo Pananti, schiavo ad Algeri, edito da Polistampa. L’autore, giornalista fiorentino, rinuncia al saggio di taglio scientifico e dà alla sua opera un simpatico e gradevole piglio da reportage del passato: con assoluta fedeltà ai fatti e alle fonti, spesso inedite e d’archivio, ricostruisce il ritratto a tutto tondo di un toscano doc che si trovò a vivere in tempi decisamente agitati e movimentati, e volle provare a dir la sua, ad essere, se non proprio protagonista, perlomeno comprimario nei grandi drammi che la storia metteva in scena in quegli anni turbolenti. In modo bonario, però, affidandosi alla forza delle parole e non alla violenza delle armi. Dopo una giovinezza un po’ scapestrata, si lascia coinvolgere nei venti rivoluzionari che spirano su tutta l’Europa e sconvolgono anche la pacifica Toscana; il più delle volte però, senza esporsi troppo; ma nel 1799, quando i francesi giungono a Firenze, crede alle favole libertarie e prende decisamente posizione a loro favore, facendosi la fama di intellettuale impegnato. Ma quando poco dopo avverrà l’effimera restaurazione graduale, scappa a gambe levate. Inizia così un lungo giro di peregrinazioni che lo porteranno, per diversi anni, in Francia e in Inghilterra; a Londra, dove nel 1808 pubblica il poeta di teatro, la sua opera più importante, farà una discreta fortuna ma ha la malvagia idea nel 1813 di compiere un fatale viaggio per mare, di visitare la Grecia e il Levante; ma invece del Partendone, lo attende il "bagno" degli schiavi di Algeri. Ciampi descrive molto abilmente la fasi di un viaggio disagevole e sfortunato, l’impatto con i pirati e lo choc della cattura, l’esperienza traumatizzante della schiavitù – per fortuna breve, grazie all’intervento del console britannico – sempre ponendosi dal punto di vista del suo personaggio, che ora invia comprensibilmente tutte le maledizioni possibili ai carcerieri, di cui non comprende né la mentalità né i costumi, ora viene sedotto dal fascino dell’Oriente e soprattutto... delle orientali, che però sono inaccessibili nel segreto dell’harem. Non c’è da stupirsi che al suo ritorno in Toscana, dalla quale non si muoverà più, guarito dalla voglia di viaggiare, scriva una fortunata Relazione di un viaggio in Algeri che non gronda proprio gratitudine e benevolenza nei confronti dei suoi ex carcerieri. A Ciampi, che non disdegna il confronto tra il passato e il presente su un tema "scottante" come i rapporti con il mondo islamico, questo aspetto del suo eroe piace poco; gli rimprovera, sostanzialmente, una scarsa comprensione verso il mondo di cui è stato ospite involontario, e riscontra in certe sue affermazioni uno spirito di intolleranza destinato a tragica fortuna, sia pur temprato da un buonsenso tutto toscano. Ma bisogna comprendere il povero Filippo; e se è vero, come afferma l’autore, che l’usanza di far schiavi non era esclusiva dei pirati musulmani, pare un po’ eccessivo mettere il toscano Ordine di Santo Stefano quasi sullo stesso piano; purtroppo la schiavitù è esistita anche in Toscana, ma non era la regola; e soprattutto l’Ordine di Santo Stefano, che agiva prevalentemente a scopo difensivo, già dalla metà del ’700 era praticamente in disarmo. Ma a parte questo, è un bel libro, veramente una sorpresa tutta toscana.
Data recensione: 09/11/2005
Testata Giornalistica: Il Giornale della Toscana
Autore: Domenico del Nero