chiudi

Va subito segnalato al lettore che il libro ha ricevuto dalla Fondation Napoléon il premio 2008 quale migliore opera straniera. Un premio particolarmente significativo per il rilievo che l’istituzione occupa nell’ambito degli

Va subito segnalato al lettore che il libro ha ricevuto dalla Fondation Napoléon il premio 2008 quale migliore opera straniera. Un premio particolarmente significativo per il rilievo che l’istituzione occupa nell’ambito degli studi napoleonici e per il prestigio dei membri della giuria in cui figurano alcuni autorevoli membri dell’Académie française come il principe Gabriel de Broglie e M. Jean-Marie Rouart ed importanti storici come François Crouzet, Jean Tulard ed altri ancora. Nel suo lavoro Donati affronta, in parallelo, la ricostruzione del complessivo processo d’inclusione della Toscana nel sistema imperiale (con la conseguente formazione di una nuova classe dirigente) e dell’attività specifica svolta dal sottoprefetto Giovan Battista Nomi prima ad Arezzo e poi a Pisa. Come si sostiene esplicitamente nella motivazione del premio “ces deux thématiques (l’étude de l’activité législative d’un coté, et l’étude de l’action spécifique de l’élite administrative de l’autre) donnent une vision saisissante de l’expérience de l’Empire. Les changements de régimes ne sont jamais tranquilles. Ici un petit royaume fut absorbé (presque du jour au lendemain) par une structure étatique géante, et assujetti aux volontés d’une puissance lointaine. Certes, les oppositions, tant aux impôts qu’à la conscription, étaient vives, mais le pays fut enfin «pacifié» par un changement ultérieur: en devenant un grand duché sous la direction de la soeur de l’empereur, Elisa”. Dal 1792 con l’annessione della contea di Nizza e del ducato di Savoia, si era profilato quell’ampliamento dei confini che nel nuovo secolo avrebbe visto riuniti alla Francia i territori dell’area piemontese, la Liguria (1805), la Toscana (1808), Parma (1089) e Piacenza (1810), l’Umbria ed il Lazio. Gli esiti di questo processo furono costellati da conflittualità interne che assunsero gradi diversi di importanza e gravità in relazione alla durata della permanenza dei vari territori sotto il dominio francese e alla loro lontananza dalla madrepatria. Le relazioni tra Parigi e le sedi in cui fu esercitato il potere negli Stati di recente occupazione si svilupparono sotto il segno di una più o meno latente ostilità nei confronti dell’applicazione in loco del sistema burocratico e delle leggi napoleoniche. Ciò si verificò sia in quelle aree che conservarono una parvenza di autonomia sia in quelle che risultarono annesse a tutti gli effetti. In questa ottica il volume fornisce un’esaustiva ricostruzione dell’attività di codificazione napoleonica protrattasi tra il 1800 ed il 1810 e della tempistica relativa alla promulgazione dei codici. L’attrito tra la politica accentratrice di subordinazione alla volontà di Parigi e le istanze di autonomia provenienti dalla periferia dell’Impero si fece più acuto intorno al 1809-1810, al sistema imperiale che si andava costituendo. Emerse allora l’esplicita volontà di Napoleone di abbandonare progressivamente la politica seguita fino a quel momento, quella cioè di affidare il governo dei regni conquistati a membri della propria famiglia, a favore della loro diretta annessione all’Impero. Tale indirizzo traeva profonde e motivate giustificazioni dalla necessità di imporre rapidamente – senza delegare il compito ad altri – i provvedimenti capaci, a suo avviso, di attivare con successo il Blocco continentale. Come osserva l’A. si trattò di «una transizione che è stata percepita e rappresentata come passaggio da un sistema “carolingio” di vassalli dipendenti, a un grande Impero alla Diocleziano, con al centro il “sogno romano”, avvalorato nel 1811 dalla nascita del re di Roma, erede della “quarta dinastia”» [p. 12]. All’inizio del XIX secolo, come conseguenza più significativa delle vittoriose campagne di conquista napoleoniche, fu imposto e diffuso in Europa un “modello” istituzionale innovativo che prevedeva, con la nascita di dipartimenti, circondari e comuni, una burocrazia di nomina governativa e Consigli aventi un carattere spesso meramente consultivo, eletti mediante criteri censitari. Si trattava di un sistema di governo fortemente accentrato che imponeva un regime unico di monete, pesi e misure, la riorganizzazione delle finanze attraverso l’elevazione di nuove tasse e tributi e l’estinzione del debito pubblico mediante la vendita dei beni nazionali. Inoltre fu avviato un controllo della giustizia, dell’istruzione e degli affari religiosi. Il più recente dibattito storiografico, relativo all’età napoleonica, si è sviluppato sostanzialmente intorno a tre temi: il carattere dell’espansionismo napoleonico, i motivi e gli aspetti delle resistenze da esso incontrate, il grado, infine, di sopravvivenza, nell’Europa dell’Ottocento, delle strutture istituzionali del primo Impero L’annessione dei territori europei – secondo Stuart Woolf – appare come la sistematica attuazione di un piano di conquista, reso possibile dalla superiorità in campo militare, volto a condurre a buon fine – a profitto degli individui e degli Stati sottomessi – la missione “civilizzatrice” della Nazione francese. Da altri autori è venuta invece una lettura delle modalità di istituzione e delle finalità di governo dei nuovi Stati napoleonici che ne sottolinea il carattere, da un lato, di costruzioni edificate via via empiricamente in obbedienza alle alterne vicende della guerra e dei rapporti diplomatici con le altre potenze, e dall’altro di sedi di un rapinoso “spoils-system” con obiettivo l’estrazione di risorse di ogni tipo: uomini, ricchezze ed opere d’arte. Fu proprio l’imposizione di un nuovo modello amministrativo che scatenò una sequela di reazioni contro il regime. Alla crescente azione accentratrice posta in essere dai francesi si contrappose, infatti, nei paesi conquistati un ampio fronte di forze sociali che vedevano compromesse, insieme ai privilegi feudali, le autonomie locali consolidatesi nel corso dell’ancien régime. Sviluppatesi sin dal 1804, le rivolte interne all’Impero acquistarono maggior vigore nel biennio 1808-1809, in concomitanza con la diffusione in Europa, in funzione antinapoleonica, della rivendicazione dell’identità nazionale e della Costituzione. Così, a parti rovesciate, con la loro strumentale adozione da parte degli stessi rappresentanti di alcune Corti europee, le parole d’ordine nate e diffuse con la Rivoluzione finivano per ritorcersi, contrastandolo efficacemente, contro il progetto di unificazione europea posto in essere da Napoleone. Il variegato schieramento antinapoleonico, in cui figuravano ormai in netta minoranza coloro che lottavano per il ritorno alla vecchia società degli ordini, scendeva in lotta in nome degli ideali di libertà e uguaglianza poste a fondamento di una nazione rinnovata. In Italia, secondo Michael Broers, le forme di resistenza si articolarono su due piani: attraverso un’insurrezione violenta che si dispiegò tra il 1805 ed il 1809 in opposizione alle imposizioni fiscali ed alla coscrizione obbligatoria e attraverso uno scontro culturale e di civiltà suscitato contro lo Stato dei “lumi” napoleonico da una cultura passatista e “barocca” come quella italiana del tempo, scarsamente incline alla riflessione filosofica. Tali giudizi appaiono all’A. piuttosto sommari in quanto tendono a valutare gli avvenimenti “sulla base di categorie sociologiche”, tenendo scarso conto delle ragioni politiche, cioè delle istanze individuali e di gruppo inserite nell’ambito di aspirazioni e programmi. Soprattutto manca ancora secondo Donati, una convincente interpretazione delle rivolte popolari dell’epoca, che ne indichi le peculiarità, rispetto ad esempio alle sollevazioni antifrancesi del 1799 o al ruolo svolto dalla Chiesa. Intorno al tema delle insorgenze si è sviluppato un ampio dibattito in cui non sono mancate le manifestazioni di un ostentato e acceso “revisionismo” di matrice cattolica integralista che si sono comunque ben presto arenate nella proclamazione di una serie di anatemi antimodernisti e nell’elencazione di sterili categorie concettuali. Le insorgenze anti-francesi presentano in realtà profili estremamente complessi e per decrittarne le reali motivazioni conviene rinunciare ad una lettura che, come nei casi sopra accennati, limiti alla sola difesa del credo religioso gli scopi della lotta condotta da aristocrazia e plebe cattoliche contro “un’empia borghesia illuministica” venduta all’invasore straniero. Con altrettanta decisione – rileva l’A. – va respinta la propensione a definire sommariamente tali rivolte come movimenti “prepolitici” sempre strumentalizzati da parte delle forze reazionarie. Nonostante l’A. attribuisca grande interesse agli studi che intendono verificare il grado di radicamento delle innovazioni istituzionali introdotte dai francesi nelle diverse aree da essi occupate, egli avanza non poche perplessità sui criteri adottati da Broers nel proporre una distinzione tra un “Impero esterno”, formato da regioni di confine maggiormente interessate da disordini e da impulsi autonomisti, altre aree intermedie ed un “Impero interno” più omogeneo e sottomesso. Più convincenti in proposito gli appaiono, invece, le indicazioni di Stuart Woolf tese a sottolineare l’importanza politica delle “nuove frontiere” imposte dai francesi in relazione ai cambiamenti prodottisi nel tessuto sociale e nell’organizzazione economica e produttiva delle singole regioni. In questo contesto possono essere meglio compresi i comportamenti delle élites locali: la sostanziale indifferenza di genovesi, veneziani e fiorentini o la concreta accondiscendenza di torinesi, milanesi e napoletani. I risultati conseguiti dall’applicazione del nuovo sistema di governo furono sempre più condizionati dall’attuazione dei provvedimenti di riforma e dalla capacità di assorbimento di questi ultimi nei diversi ambiti economici e sociali. Certamente pesarono non poco sul radicamento e sul successo di quelle riforme le contraddizioni esistenti tra la convinzione da parte degli occupanti francesi di star svolgendo una “missione civilizzatrice” e le procedure autoritarie da essi utilizzate per far fronte alle necessità militari e belliche. Procedure che contribuirono a dare al regime napoleonico un’impronta sempre più dispotica e conservatrice. L’annessione all’Impero degli antichi Stati italiani fu condotta sulla base dell’introduzione di un unico corpus di leggi, regolamenti ed istituzioni ma le reazioni suscitate furono eterogenee e contribuirono a differenziare i provvedimenti e le risposte repressive. La selezione del personale che doveva far parte della burocrazia amministrativa fu uno dei principali problemi affrontati dai francesi. A Milano, Torino, Firenze e Roma il processo di accentramento amministrativo attuato da Napoleone venne sostenuto da una borghesia vivace e moderata, che in molti casi vide in quel progetto la realizzazione dei principi del riformismo settecentesco. In effetti, le riforme poste in essere dai francesi tracciarono un solco profondo nella storia degli Stati europei; esse vennero difese anche dopo la Restaurazione, e contribuirono a modernizzare gli apparati preposti al governo della vita civile ed economica. Il processo d’integrazione degli Stati italiani nel sistema imperiale napoleonico contribuì a “costruire strutture statali dotate del medesimo ordinamento amministrativo, militare e giudiziario e di un omogeneo apparato di leggi”. Attraverso la vendita dei beni della Chiesa si favorì l’espansione di una borghesia terriera. In Toscana, le ripercussioni immediate di queste trasformazioni – di non trascurabile importanza storica – furono tutto sommato piuttosto blande sul piano politico e sociale: l’azione, attivata dai francesi, di accentramento dei possessi fondiari nelle mani della nobiltà e della borghesia e gli inevitabili contraccolpi provocati dalla crisi economica e dall’innalzamento dei prezzi, non sortirono infatti conseguenze devastanti, di opposizione armata o ostilità politica aperta. Al contrario, le resistenze a quel programma furono circoscritte ed assunsero il carattere di reazioni spontanee soprattutto dei ceti contadini contro l’introduzione della leva militare e della tassazione indiretta. L’A. con notevole rigore metodologico inserisce le problematiche più generali, riconducibili al dibattito storiografico del periodo napoleonico, all’interno dell’analisi del processo di inclusione della Toscana nel sistema imperiale. Operando una continua variazione di scala dal grande al piccolo, dal particolare al generale, riesce a ricostruire scientificamente le peculiarità del caso toscano, senza trascurare la scorrevolezza della narrazione e la gradevolezza dell’esposizione. Procedendo dalle sollecitazioni offerte dagli studi di Ivan Tognarini, egli dimostra la parzialità di una rappresentazione storiografica che, contestando l’esistenza di una continuità ideale tra il riformismo leopoldino e quello napoleonico, nega che la società toscana abbia avuto la capacità di assorbire gli effetti benefici dispiegati dal nuovo sistema amministrativo, e ciò per il loro carattere improvviso, dirompente e – dunque – transitorio. La realizzazione di un programma riformatore appare comunque, nel periodo compreso tra il 1807 ed il 1809, ancora piuttosto come l’esibizione di molte buone intenzioni. I nodi dell’azione di inclusione della nuova provincia dell’Impero vengono qui indagati in relazione alla struttura amministrativa, all’organizzazione economica-finanziaria e al complesso ambito dei rapporti con la Chiesa (si pensi al regime del clero ed al matrimonio civile, alla soppressione degli enti religiosi, al pagamento delle congrue, alla liquidazione del debito pubblico e all’istituzione delle nuove feste “napoleoniche”). Le ragioni del faticoso avvio del nuovo sistema di governo sono da ricercare anche nelle incertezze e nelle frizioni interne alla classe dirigente politica e ai locali ceti dominanti. Da un lato, soprattutto negli ambienti militari e massonici del Regno d’Italia, si guardava con aperta ostilità al contributo che gli stessi toscani avrebbero potuto dare alla creazione del nuovo impianto di governo; sul fronte opposto, timore e diffidenza furono i sentimenti prevalenti con cui la nobiltà fiorentina accolse i primi interventi del nuovo governo. L’ascesa tuttavia di Elisa Bonaparte al trono e l’istituzione di una Corte a Firenze contribuirono al miglioramento dei rapporti con l’aristocrazia locale guidata dai Corsini, in linea con la politica napoleonica che intendeva integrare i ceti dirigenti locali, dando vita ad un regime fondato sul consenso dei notabili e dei proprietari. Il volume presenta uno spaccato, estremamente stimolante, della società toscana e delle problematiche che condizionarono la politica in epoca napoleonica. Esso, infine, è particolarmente apprezzabile per la serie di medaglioni corredati ed arricchiti da preziosissime indicazioni archivistiche e bibliografiche che offre in appendice e che costituisce un apparato di note biografiche quanto mai utile alla conoscenza dei percorsi e delle storie dei protagonisti.
Data recensione: 01/05/2009
Testata Giornalistica: Ricerche Storiche
Autore: Salvatore Barbagallo