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Los Angeles, la città dei sogni, come avrebbe potuto definirla Fellini, dal 16 luglio ne ospita uno in bronzo, sebbene la sua originaria natura onirica inclini alla sfera dell’incubo piuttosto che a quella delle ammalianti

Los Angeles, la città dei sogni, come avrebbe potuto definirla Fellini, dal 16 luglio ne ospita uno in bronzo, sebbene la sua originaria natura onirica inclini alla sfera dell’incubo piuttosto che a quella delle ammalianti fantasie notturne. “Chimera” significa appunto sogno, un’aspirazione utopica, ragionevolmente improbabile, come improbabile è l’animale fantastico dell’iconografia greca di cui la Chimera di Arezzo costituisce una rappresentazione. La statua di bronzo è appunto volata nella capitale del cinema al museo Getty Villa di Malibu per la mostra “The Chimera of Arezzo” che la vedrà protagonista fino al 5 ottobre prossimo. Per l’occasione le è stato dedicato un agile ma interessantissimo catalogo monografico, curato da Mario Iozzo ed edito da Polistampa, di cui vi proponiamo un saggio, a firma dello stesso curatore, dal titolo “La Chimera e il suo mito nel mondo greco”. Nel pensiero degli antichi Greci, la lotta tra gli eroi che vincono il male e giganti, briganti, fiere, mostri ed esseri prodigiosi di ogni tipo si è sempre caricata di molteplici valenze simboliche, prima fra tutte l’antitesi tra l’ordine e le leggi che regolano la vita civile (che sarà quella della polis greca) ed il chaos della natura selvaggia e sregolata. È con questo pregnante significato come modello di valori – a quel tempo certamente proposti come prerogativa delle classi aristocratiche – che la lotta tra Bellerofonte e la Chimera fa la sua comparsa, nella prima metà del VII sec. a.C., in un gran numero di raffigurazioni costruite secondo schemi iconografici che variano a seconda delle forme e dei supporti cui essi erano applicati, dei diversi periodi in cui furono elaborati e della personale inventiva degli artigiani che li adottarono nelle varie aree geografiche di produzione. Mito fra i più antichi ad essere rappresentato nell’arte greca, quello della Chimera sconfitta da Bellerofonte in groppa al suo magico cavallo alato, Pegaso, compare quasi contemporaneamente sia nelle fonti letterarie che nelle testimonianze archeologiche. Basato su modelli di evidente origine orientale, ma nel suo aspetto finale da considerarsi una rielaborazione originale della cultura greca, il tipo iconografico della Chimaira, letteralmente “La Capra”, è ricordato per la prima volta da Omero, che nell’Iliade la descrive come un essere dalla triplice natura (leone, capra e serpente), che per di più spirava fiamme. Nella mitica figura trimembre l’elemento fondamentale sembra essere quello della capra, che definitiva prevale sugli altri e le dà il nome, visto che secondo una suggestiva ipotesi, il nome del mostro sarebbe nato da un antico gioco di parole con il quale i Greci avrebbero legato il termine chimaira, “capra”, alla parola semitica (forse fenicia) chmar che significava “fuoco”, “asfalto infuocato”. È facile, allora, ipotizzare che la belva con la protome di capra pericolosamente infuocata, aggressiva e violenta come un leone, sinuosa e sfuggente come un serpente, rappresentasse la personificazione di un giacimento di asfalto che aveva preso fuoco, uno dei tanti giacimenti naturali che si trovano ancora oggi in tutto il Medio Oriente resi altamente infiammabili dall’elevata concentrazione di bitume. Uno di questi fenomeni chimico-geologici si trovava infatti in Licia, presso la città di Olympos, dove i gas naturali perpetuamente in fiamme esalati da un pozzo venivano spiegati proprio come il micidiale respiro della Chimera. Le fonti antiche ci raccontano che la Chimera viveva in Anatolia, nella regione della Licia,ed infestava la città di Patara, dove era nata tra gli armenti del re della Licia, Amisodaros, che non potendo ucciderla la nutriva e cercava di tenerla a bada per evitare che distruggesse del tutto il paese. La belva era nata dal mostruoso gigante Typhon, il più tremendo dei figli di Gaia e del Tartaro, edi Echidna, la selvaggia “Vipera”; apparteneva, dunque, alla stessa stirpe di Medusa e delle altre due terribili Gorgoni ed era sorella (o fratello, visto che esistono entrambe le versioni) di altri mostri celebri come la Sfinge, l’Idra di Lerna, Cerbero (il cane infernale) ed Ortro (il cane di Gerione), il Leone di Nemea, l’Aquila diPrometeo e  i due dragoni che custodivano il vello d’oro e i pomi delle Esperidi. L’uccisore della Chimera, Bellerophon (o Bellerophontes), era figlio di Poseidone, dio del mare, oppure, secondo una differente versione del mito, di Glauco, re di Corinto. La madre, Eurinome (o Eurimeda), aveva lo stesso nome della dea del mare che era stata la primordiale sposa di Zeus. Il giovane, semidio o eroe che fosse ed al quale gli dei avevano elargito bellezza fisica e nobiltà d’animo, aveva ricevuto alla nascita un nome diverso; ma poiché già in giovane età si sarebbe distinto per aver ucciso Belleros, malvagio tiranno di Corinto, l’epiteto di “Uccisore di Bellero” attribuitogli in quella circostanza gli sarebbe rimasto per sempre come suo nuovo nome. Col tempo, avendo ottenuto da Atena (oppure chiesto al padre, in questo caso, Poseidone) un cavallo alato, ottenne di sorprendere Pegaso che si abbeverava alla fontana Peirene, nella stessa Corinto, ma poiché era difficile trattenere l’animale, Atena gli fece dono di un paio di briglie con il morso d’oro. Tuttavia, come tutti gli eroi che si rispettino (e persino del dio Apollo), anche Bellerofonte doveva espiare per il suo delitto: l’eliminazione del dispotico Bellero era stata certo un’azione eroica, ma pur sempre un delitto. Fu costretto, dunque ad affrontare un periodo di esilio (l’emarginazione dell’individuo insubordinato e impuro dalla comunità riconosciuta), durante il quale affrontare una espiazione purificatrice. Si recò, così, nella non lontana città di Tirino, in Argolide, governata dal saggio re Proitos. Questi lo purificò dalla colpa e lo trattenne presso di sé per qualche tempo. La regina Anteia, una principessa dell’Asia Minore (che nelle tragedie di Euripide e Sofocle si chiamerà invece Stenebea), si innamorò del bel Bellerofonte, ma avendola questi rifiutata, lo calunniò con l’accusa di esserne stata molestata. Preto inviò così il suo ospite da suo suocero Iobates, re di Licia (oppure, secondo un’altra tradizione, da Amisodaro), con due tavolette sigillate che recavano un messaggio di morte, particolare, questo, che costituisce anche la più antica attestazione dell’uso della scrittura nel mondo greco. Il re di Licia celebrò l’arrivo del giovane eroe con nove giorni di festeggiamenti, durante i quali vennero persino immolati dei tori, ma quando aprì la lettera inviatagli da suo genero Preto scoprì che avrebbe dovuto eliminare il proprio ospite. Gli diede allora l’incarico di uccidere la terribile Chimera. Montato in groppa a Pegaso, le cui ali magiche gli consentivano movimenti sovrannaturali, Bellerofonte sfuggì agli assalti infuocati delle mostruose fauci ed agli scatti improvvisi delle zampe possenti, fino ad ucciderlo con le sue frecce, oppure con la sua lancia o con il tridente del padre Poseidone. Tornando vincitore dall’impresa, l’impavido Bellerofonte assurge facilmente a simbolo di eroismo, per aver liberato la regione dal mostro che la terrorizzava, ma anche di lealtà, per non aver ceduto alle profferte amorose di Antea/Stenebea ed aver così evitato di tradire la fiducia del suo ospite, Preto. Le più antiche raffigurazioni del mito della Chimera, di Pegaso e Bellerofonte a noi note si trovano su oggetti dedicati come offerte votive nei santuari oppure deposti nelle tombe come offerte in onore del defunto e sono diffuse nella Grecia propria ed in tutto il mondo greco, dalle coste dell’Anatolia a Corfù, da Egina a Creta e Thasos, fin nell’ambito coloniale del Golfo di Taranto, dove l’insediamento dell’Incoronata, presso Metaponto, ha restituito un dinos sul suo supporto, che costituisce non soltanto una delle più antiche raffigurazioni del mito nel mondo greco, ma anche la più antica scena mitologica sicura finora nota che sia stata prodotta e rinvenuta in Magna Graecia. I secoli successivi videro un vero e proprio exploit iconografico della saga, che fu narrata su vasi a figure nere di produzione corinzia, attica, laconica, greco-orientale e magnogreca, rinvenuti nei singoli centri di produzione e nelle loro vicinanze oppure esportati nelle aree più disparate del Mediterraneo, documentano l’ampio favore che il mito dell’eroe corinzio incontrò presso i popoli che avevano contatti con i Greci. Poiché la storia dell’eroica impresa rientrava tra quelle più emblematiche e cariche di simbolismi, la si ritenne idonea anche ad abbellire grandi monumenti pubblici, come gli sfarzosi troni delle statue di Apollo nel santuario di Amyklai, presso Sparta, e di Asclepio in quello di Epidauro, oppure il grandioso tempio di Apollo a Delfi, mentre un gruppo statuario di bronzo dorato, raffigurante Bellerofonte che in sella a Pegaso uccide la Chimera, era stato posto sull’Acropoli di Atene nella seconda metà del V sec. a.C., periodo nel quale anche i grandi tragediografi Sofocle ed Euripide dedicarono alla saga almeno tre opere, oggi purtroppo perdute: il primo un dramma dal titolo Iobate, il secondo due, Bellerofonte e Stenebea. Un frammento di cratere a calice dipinto a Taranto intorno al 350 a.C. ed oggi custodito nel Museo di Würzburg, tanto celebre da essere definito “La scenografia di Würzburg”, raffigura parte di un edificio teatrale sul quale si svolge un’azione scenica che da alcuni è stata considerata proprio come dipendente da una di quelle tragedie perdute, forse la Stenebea euripidea. Molte altre raffigurazioni del mito della Chimera, su vasi, terrecotte, stele funerarie di guerrieri caduti in battaglia, mosaici, gemme, monete ed oreficerie, rilievi e statuette a tutto tondo, dimostrano la grande fantasia degli artisti ed artigiani greci che impiegarono il mito in funzione trasmetteva, e naturalmente anche nella stessa Licia, patria del mostro e terra in cui si svolse la sua vicenda, dove uno scultore greco decorò con l’epica lotta la tomba diun principe del luogo, il cosiddetto Heroon di Trysa (l’odierna Giölbasi, in Turchia).
Data recensione: 28/07/2009
Testata Giornalistica: Metropoli
Autore: Jacopo Nesti