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Le Madonne del Parto, cioè le immagini di Maria incinta, appaiono in Toscana all’inizio del XIV secolo. Compaiono subito dopo la soppressione dell’Ordine Templare e da lì si diffondono, accompagnando il fiorire dell’Umanesimo, per trovare una delle espres

Le Madonne del Parto, cioè le immagini di Maria incinta, appaiono in Toscana all’inizio del XIV secolo. Compaiono subito dopo la soppressione dell’Ordine Templare e da lì si diffondono, accompagnando il fiorire dell’Umanesimo, per trovare una delle espressioni più arcane ed enigmatiche circa un secolo dopo nella figura che Piero dipinse presso la città che del Sepolcro portava il nome (sulle Madonne del Parto vedi l’esauriente AA.VV. La Madonna nell’attesa del parto, 2001 ed il mio Le Madonne del Parto. Icone templari, 2005).
La prima immagine conosciuta sembra essere quella conservata nel Museo dell’Opera del Duomo di Prato. Viene genericamente datata al 1320, ma potrebbe anche essere posteriore. Maria ha un velo blu e la veste rossa, tiene un libro appoggiato sul ventre. La seguono una Madonna del Parto attribuita a Bernardo Daddi, datata verso il 1334, conservata al Museo dell’Opera del Duomo di Firenze. Anch’essa ha il velo blu e la veste rossa. Poi, a breve distanza di tempo, troviamo la cosiddetta Madonna del Magnificat, attribuita anch’essa al Daddi, e la Madonna del Parto di Nando di Cione, nella chiesa di San Lorenzo a Firenze, datata verso il 1357. Ne esiste quindi un’immagine bellissima attribuita a Taddeo Gaddi, un affresco staccato e conservato a Firenze nella chiesa seicentesca di san Francesco di Paola. La datazione dell’affresco è controversa: alcuni lo collocano negli anni Venti-Trenta del XIV secolo; in questo caso si tratterebbe di una fra le prime immagini di questo tipo. Altri lo ritengono invece frutto della maturità di Taddeo e cioè degli anni Cinquanta.
La tipologia della Madonna incinta si fa risalire alla cosiddetta icona bizantina della Maria Platytera. In questo tipo di icona la Madonna appare in piedi, con le mani in preghiera, sul petto un tondo che contiene l’immagine del bambino benedicente in posizione assiale con la Madre, senza rapporto organico con essa e a mezzo busto. Platytera significa più ampia, paragonata ai cieli, ed il titolo ha una valenza cosmica. La stessa curvatura del ventre può ricordare la calotta dell’universo, come tempio del Verbo. La figura della Madonna del Parto si distacca da questo tipo, perché non mostra il bambino, ma solo una modesta rotondità del ventre accennata dalla cintura che racchiude in alto la veste.
Si è scritto che l’immagine potrebbe scaturire dal riemergere di culti pagani legati alla fertilità della terra, oppure dalla rivalutazione della carnalità e dell’umanità di Gesù per confutare l’eresia catara, ma entrambe le ipotesi non spiegano l’epoca di invenzione né il rapido diffondersi. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’immagine non nasce dalla devozione popolare, ma in ambienti colti. Sono innegabili alcuni riferimenti alle omelie di San Bernardo di Chiaravalle, del quale è nota la devozione mariana.
Per comprendere il simbolismo delle Madonne incinte dobbiamo ricordare che teologicamente Cristo è la Sapienza e Maria ne rappresenta il Trono. Come tale è identificata ad esempio nel mosaico absidale di Santa Maria in trastevere a Roma. In senso lato Maria è figura della Ecclesia, cioè di ogni comunità cristiana. Il libro chiuso contraddistingue molte delle prime immagini di queste Madonne e va inteso quale simbolo della Sapienza che si nasconde nel grembo di Maria: come il bambino deve ancora venire alla luce, così il libro deve ancora dischiudere le pagine che manifestano la Parola. Le Madonne del Parto sembrano dunque alludere ad una Sapienza nascosta, che sta per rivelarsi, e scaturire da aspettative profetiche alle quali il gioachinismo stesso potrebbe non risultare estraneo. Ma come non pensare alla misteriosa profezia dantesca del Cinquecento Dieci e Cinque? (Mi riferisco qui ovviamente alle prime immagini, perché le icone della Madonna incinta si ritrovano anche nei secoli successivi e negli ambienti più diversi, come probabili ripetizioni di un tipo del quale si era perso il simbolismo colto originario e che veniva ripetuto anche come elemento di venerazione popolare).
Ho proposto qualche anno fa una chiave di lettura delle Madonne del Parto che si ricollega proprio a Dante ed ai Fedeli d’amore, cioè a quel movimento di poeti filosofi che attraverso la poesia d’amore velava verità teologiche non sempre ortodosse e dunque non comunicabili apertamente. La denominazione di Fedeli d’amore deriva da Dante che, nella Vita Nuova, chiama così i destinatari dei suoi versi. Anche Petrarca qualche decennio dopo definì il movimento a cui apparteneva come Amorosa Schiera: si tratta in entrambi i casi di espressioni che denotano la profonda e probabilmente iniziatica coesione del gruppo.
Molti dei sonetti e delle canzoni di questi poeti filosofi sfuggono alla nostra comprensione e rappresentano una sorta di epistolario in rima, le cui parole sono spesso velate da un linguaggio che sembra fatto per essere compreso solo da chi vi sia stato iniziato. I passi in cui Dante e i suoi compagni affermano che i loro versi non sono destinati a tutti sono innumerevoli. Come scrisse il grande dantista Erich Auerbach: “Non si può negare l’oscurità della maggior parte delle poesie dello Stil Nuovo o cercare in ogni singolo caso delle spiegazioni storiche, perché la quantità delle stranezze è troppo grande, i rapporti e le concordanze di contenuto e di espressione troppo evidenti, e troppo frequenti gli accenni a un significato arcano, accessibile solo agli eletti... Tutti [questi poeti] appartengono ad una specie di lega segreta che determina la loro vita interiore e forse anche esteriore...” (Auerbach, 1966, pp. 26 e 54).
Robert John avanzò in un testo ormai celebre l’ipotesi di un collegamento tra questi poeti e la presunta gnosi templare (John 1987, p. 153). Sull’argomento vedi il capitolo Fedeli d’amore e templari nel mio Beatrice e Monna Lisa, 2005). Ma è realmente esistito tra i Templari un insegnamento segreto, iniziatico e perciò conosciuto solo dai vertici dell’Ordine? Molti indizi fanno ritenere di sì. Lo pensa la studiosa Barbara Frale: “Nel Tempio erano in uso alcune tradizioni segrete, tramandate oralmente, delle quali nella normativa ufficiale non esisteva altro che un’impercettibile allusione” (Frale 2004, p. 135). Gli studi e le scoperte di Simonetta Cerrini dimostrano che i Templari usarono pratiche magico-teurgiche e si confrontarono con la cabbalà ebraica praticando, secondo la studiosa, una tolleranza religiosa che li portava ad insospettate convergenze con l’ebraismo e con quello stesso Islam che pure combattevano (Cerrini, 2008).
Un convinto dialogo interreligioso appare componente costante anche della poesia dei Fedeli d’amore. Il termine usato da Dante sembra ripreso da quello con cui i sufi indicavano se stessi, nascondendo la loro dottrina sotto l’allegoria della poesia d’amore. Come scriveva nel XII secolo Abubacer: “i pochi uomini solitari che cercano la verità con la forza della ragione comunicano fra loro tramite le allegorie, poiché ’Islam e le leggi proibiscono questo studio e mettono in guardia contro di esso”. I Fedeli d’amore islamici sembrano addirittura aver praticato un vero e proprio sincretismo, che riconduceva le varie religioni all’unica fede del cuore. Così in Ibn Arabi: “Il mio cuore è diventato capace di accogliere ogni forma, è un pascolo per le gazzelle, un convento per i monaci cristiani. È un tempio per gli idoli, è la Ka’aba del pellegrino, è le tavole della Torah, è il libro sacro del Corano. Io seguo la religione dell’Amore, quale sia mai la strada che prende la sua carovana: questo è il mio credo e la mia fede”. Molti altri poeti filosofi islamici usano lo stesso linguaggio di Ibn Arabi, che trova puntuali analogie in quella del Fiore, l’operetta esoterica atribuita da molti a Dante stesso: “... i’ son tu’ deo”, dice Amore al suo discepolo, “ed ogni altra credenza metti a parte, né non creder né Luca né Matteo né Marco né Giovanni (Dante Alighieri, Il Fiore, 11-14).
Alla corte di Cangrande della Scala visse un filosofo ebreo, Immanuello Romano, che fu probabilmente amico di Dante. Dopo la morte del poeta egli compose un’opera ispirata alla Commedia, dal titolo L’Inferno e il Paradiso, nella quale raccontò un cammino oltremondano analogo a quello dantesco. Egli vi affermò l’unità sapenziale delle tre religioni abramitiche, probabilmente svelando il fondamento segreto della confraternita d’Amore, il fatto cioè che gli iniziati avrebbero ricercato una conoscenza di Dio non costretta nelle forme esteriori delle religioni ufficiali: “Quando ebbero investigato tutte le fedi, ed ebbero trovato in ciascuna di che rafforzare le loro basi, le loro mani divennero salde e disdegnarono le fedi diverse da questa. Non dissero: Rimaniamo nella nostra fede poiché essa è tradizione passata dai nostri padri alle nostre mani, ma scelsero fra tutte le fedi le opinioni che erano giuste e sulle quali gli uomini di sapienza non avevano divergenze” (Immanuello Romano 2000, pp. 83-85). Templari e Fedeli d’amore, siano questi ultimi cristiani, ebrei o musulmani, sembrano dunque accomunati da una tolleranza religiosa che pare in alcuni casi trasformarsi in vero e proprio sincretismo.
Esistono altri indizi di un insegnamento ad entrambi comune che, nascosto sotto il velo delle allegorie, avrebbe comunque riguardato una ristretta élite di cavalieri e di poeti. Fra questi indizi va collocata l’importanza simbolica attribuita al numero Nove. Tutta la vicenda dei Templari è scandita da questo numero sacro. Guglielmo di Tiro dice: “Impegnatisi da nove anni in questa impresa, non erano più di nove...”. In realtà ci sono dubbi che i cavalieri iniziali fossero solo nove: Michele il S Siriano parla infatti di trenta, che è un numero più credibile. La fondazione dell’Ordine è collocata nel 1119, ma non esiste alcuna prova; è facile invece notare che anche questa data è imperniata sul Tre e sul Nove. Sembra che questo numero sia stato associato a posteriori dai Templari stessi alla costituzione del loro Ordine, per appropriarsi del suo simbolismo mistico.
Dante associa il Nove a Beatrice. Come la vicenda templare, tutte le tappe della Vita Nuova be sono scandite. E Dante svela che questo numero si identifica con Beatrice in quanto simboleggia la potenza della Trinità, della quale la Donna Angelo è emanazione. Ella è infatti la sposa del libano, l’antica Sophia nella quale la Sapienza pone il suo trono. Gnosi templare e gnosi dei Fedeli d’amore sembrano dunque utilizzare allegorie comuni. (I collegamenti fra Templari e Fedeli d’amore non si limitano ovviamente a questo. Per una trattazione più esauriente vedi il mio Beatrice e Monna Lisa, 2005).
Data recensione: 01/06/2009
Testata Giornalistica: Prometeo
Autore: Renzo Manetti