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Le opere dell’artista signese in mostra nella cripta di San Pancrazio a Firenze. La grande Arpa ricurva che accoglie il visitatore lungo le scale di accesso alla cripta dell’antica chiesa di San Pancrazio è un’opera del 2000.

Le opere dell’artista signese in mostra nella cripta di San Pancrazio a Firenze. La grande Arpa ricurva che accoglie il visitatore lungo le scale di accesso alla cripta dell’antica chiesa di San Pancrazio è un’opera del 2000. Essa segna un punto centrale della parabola artistica di Giovanni Vettori: e non solo per ciò che concerne lo sviluppo cronologico interno alla sua opera, ma anche per l’intento dichiarato di voler riassumere, nel respiro astratto e solenne di un’originale forma ceramica, i tratti salienti di un percorso di vita in cui riflessi biografici e appassionata aspirazione verso il dominio della materia si intrecciano in maniera indissolubile. Dalle corde dello strumento Vettori sembra aver tratto l’abbrivio per una sorta di racconto, fatto di suoni e parole, che si svolge con le cadenze semplici e fantastiche proprie dei cantastorie. Ritratti di affetti quotidiani, trasfigurazioni della propria immagine in una dimensione sospesa tra mito e letteratura, visioni di terre amate, ridotte alla loro essenza più semplice e segreta. Nell’Arpa l’artista si confronta con l’immagine di Don Chisciotte, per poi raffigurarsi come una creatura ferina, la cui presenza ritorna, sempre con valenza di autoritratto, nel grande piatto dalle tonalità azzurre. Da qui si snoda il vero e proprio percorso della mostra. La maschera di sé può tuttavia assumere tratti stilizzati e imprevedibili, dissolvendosi nella superficie di nuove maschere, stavolta legate alle sorgenti ispiratrici di civiltà lontane. D’altronde, l’oscillazione costante tra una rappresentazione naturalistica e una visione astratta delle forme, intorno a cui la creatività di Vettori si è andata esercitando di volta in volta, segna senza soluzione di continuità il suo intero itinerario artistico. Si è scelto, pertanto, di evidenziare inizialmente questo assunto attraverso due opere che possano rivelarsi in tal senso esemplari, ponendosi al contempo quali necessari perni visivi all’interno dello spazio espositivo. Come nella sequenza narrativa dell’Arpa, la sapiente articolazione geometrica del corpo del Gallo, issato alla sommità di una colonna ottenuta per sovrapposizione di innumerevoli elementi modulari, suggerisce un ulteriore deciso richiamo al mondo della natura. Richiamo che si riverbera nel suono immaginario dell’acqua della Fontana, concepita dal maestro signese disponendo tre grandi maschere tridimensionali intorno ad un getto d’acqua suggerito da un’asta metallica su cui si tiene in equilibrio un diavoletto armato di tridente. L’elemento acqua segna e modella infiniti oggetti scaturiti dalla forma primigenia del vaso: le sagome fragili ed eleganti delle caravelle in fuga sul mare azzurro; i profili arcaici di anfore sottratte ad antichi naufragi solo per essere sottoposte al rito di un’improvvisa metamorfosi da cui traggono vita creature animali, talvolta fantastiche, che si specchiano l’una nell’altra. L’innesto costante di riconoscibili elementi naturalistici trova forse la sua espressione più compiuta nel Grifo (1999) , la cui sommità rivela una maschera animale che si richiama, nelle sue forme adunche, alla decorazione delle antiche navi vichinghe. Il tema della metamorfosi, lungamente amato dall’artista, è ravvisabile ancora nelle linee fluttuanti di alcune sculture che assommano in sé il movimento elegante di alghe e piante marine con un’estrema originalità di concezione. Parallelamente, esiti di calcolata astrazione si riscontrano nelle forme completamente svincolate da ogni riferimento naturalistico, dove il senso della materia è restituito dalla sapiente orchestrazione degli smalti che rivestono le superfici. L’esigenza di richiamarsi alle tipologie essenziali dell’arte ceramica, ottenute in massima parte con l’ausilio del tornio, ha portato Vettori a elaborare vere e proprie sculture, anche di dimensioni monumentali. La forma circolare, declinata in un gran numero di varianti, si associa ad elementi troncoconici generando sorprendenti macchine fantastiche, sospese tra un’antichità remota e un indecifrabile futuro. Oggetti capaci di dialogare, per la loro comune matrice, con le forme assai più semplici e quotidiane di una Fiasca oppure di uno scudo che si trasforma nel corpo stesso di un guerriero primitivo. La perfezione del modulo circolare trova infine un’ultima coerente espressione nella messa a punto di singolari strumenti musicali a corde, decorati con motivi astratti o geometrici. Nei suoi ultimi anni di attività, inoltre, l’urgenza di misurarsi con opere che si vanno progressivamente strutturando su scala monumentale induce Vettori a mutare il proprio registro espressivo adottando tecniche di lavorazione peculiari della scultura. A partire dal 2000, con la grande Vela del parco dei Renai di Signa, le superfici iniziano ad animarsi di sottili modulazioni in rilievo esaltate da una sapiente resa policroma degli smalti. Un lavoro ricercato e complesso che, l’anno successivo, porterà l’artista a traforare la lastra di argilla per sistemare sullo sfondo di un fitto reticolo di racemi vegetali sagome affrontate di animali (Portale), oppure incastonare nell’intricata struttura dei Totem, dai colori vivacissimi, una miriade di occhi d’antica valenza apotropaica. Gli elementi di ispirazione etnica che si riscontrano in queste sculture si riverberano con grande varietà di accenti nella sequenza di maschere disposte nello spazio absidale dell’antica cripta di San Pancrazio. Volti di antiche civiltà mediterranee si alternano a fisionomie riecheggianti culture primitive, per sfociare successivamente in più libere espressioni fantastiche che di quelle sembrano trattenere soltanto lontani riflessi. Anche nel trattamento delle superfici, d’altronde, si osserva una ricerca altrettanto coerente: dai colori smaltati nelle tonalità del verde uniforme o screziato, in grado di evocare gli effetti di un antico bronzo ossidato; alle incrostazioni che paiono prodotte dalla crescita di microrganismi o dall’improvviso raffreddarsi di una massa magmatica su cui si affacciano piccole cavità in corrispondenza dei tratti somatici. Mentre in altri casi, quando più espliciti si fanno i riferimenti alle sorgenti dell’arte africana e dell’Oceania, i colori si prestano a suggerire con grande efficacia la misteriosa immobilità delle maschere rituali. La stilizzazione tipica dell’idolo primitivo doveva inoltre fornire nel 2003 lo spunto iniziale per l’elaborazione della Dea madre. Il corpo della figura femminile, al pari di quello del figlio che essa presenta quale oggetto di venerazione – aspetto che si è scelto di esaltare con l’inserimento dell’opera nel sacello della cripta –, risulta dall’innesto di segmenti di forma semicircolare su di una semplice struttura verticale. Quasi a volerne velare le nudità, le membra di entrambi sono avvolte da fasce di colore chiaro che spiccano sul tono naturale dell’argilla. Una scelta cromatica di dichiarato valore simbolico, nel suo ricondurre la sacralità dell’immagine al rapporto che da sempre lega la creatura umana alla materia in cui essa sarebbe stata originariamente plasmata. Materia capace tanto di richiamare, nella perfetta sfericità delle due teste, i primi e più semplici esiti della lavorazione ceramica; quanto di rappresentare, nella sua applicazione su scala monumentale, il punto più alto, e certo più rappresentativo, del cammino artistico di Vettori dalla ceramica alla scultura. Sul tema della femminilità l’artista aveva peraltro continuato a interrogarsi nello stesso torno di tempo con risultati altrettanto felici. L’azzurro respiro della Vela si mutava ora nel corpo arcuato della grande Donna sostenuta da una struttura tubolare in acciaio che si irraggia armoniosa dal suolo, divenendo essa stessa parte integrante dell’opera. La flessuosa figura, racchiusa nell’arco estenuato d’una semplice forma geometrica, si genera dall’assemblaggio di formelle rifinite a smalto salato. Solchi e rugosità ne frastagliano la superficie alternando ai toni grigio-celesti dell’acqua i colori della terra, quasi a proporre, nei termini di un rinnovato affascinante connubio, l’arcana celebrazione della donna quale sorgente di vita generata dall’unione di elementi opposti e primigeni. Il senso del dialogo immutabile fra oggetti chiamati ad evocare la bellezza di un’antichità perduta e l’apparizione di immagini volte a contemplare un futuro inconoscibile trovava, tra il 2001 il 2004, un’ultima eco nel confronto tra le lastre slabbrate dei due Reperti e la coppia dei dischi che Vettori aveva intitolato Caos celeste e Caos terrestre. Ai grandi frammenti color bronzo che ancora trattengono, in rilievo o sottilmente graffite, scene primitive di caccia e di pesca, fanno da contrappunto le astratte visioni generate dalla dissoluzione della forma perfetta del cerchio, metafora di un’armonia cosmica irrimediabilmente frantumatasi assieme alla prima e più semplice fra le tipologie ceramiche. E riflessi evanescenti di lontane armonie sono ancora le diafane creature ispirate al Flauto magico mozartiano (2003), il cui canto accompagna il lieve movimento dei loro corpi ormai costretti in eterne vesti di sogno e d’aria sottile, rendendo commosso lo sguardo che esse gettano sul tempo della vita. Quello che a Giovanni Vettori veniva sottratto per sempre nella primavera di due anni fa, mentre ancora indagava la realtà delle cose con l’avido pudore di chi era riuscito, lungo le sue stagioni, a raccontare le verità del mondo senza peso di parole. Ad occhi aperti, capaci d’assecondare il mutare d’ogni orizzonte, con la stessa silenziosa saggezza che egli aveva instillato nella Cova delle idee: la piccola scultura dal triplice volto su cui spiccano tre uccelli colti nell’atto di proteggere una nuova futura esistenza. Ci è piaciuto immaginare gli occhi azzurri che rendono umani e misteriosi i profili da antica divinità orientale di quest’opera come quelli di Giovanni Vettori, immobili e sereni nel difendere lo straordinario dono d’arte e di fantasia che, anche per nostra fortuna, era stato loro concesso.
Data recensione: 01/06/2009
Testata Giornalistica: InContatto
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