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Sullo scorcio del 1966, Antonio Pizzuto scrisse alla nipotina Cecia, allora dodicenne, un biglietto in cui affettuosamente le rimproverava l’“insana” passione per il rock: “Ti prego di badare alla Mamma, che viene

Sullo scorcio del 1966, Antonio Pizzuto scrisse alla nipotina Cecia, allora dodicenne, un biglietto in cui affettuosamente le rimproverava l’“insana” passione per il rock: “Ti prego di badare alla Mamma, che viene prima di tutti i Beatles del mondo!”. Quarantadue anni dopo, deposto il nomignolo familiare, Cecia-Giovanna rileva il testimone del nonno, esordendo con un breve romanzo imperniato proprio su quella passione, ora avvinta ai suoni di Bruce Springsteen.
Le canzoni del Boss – essenziali nella trama di Affittasi, perché la attraversano in lungo e in largo, dall’epigrafe allo struggente congedo, essendo l’humus che nutre le affinità elettive dei protagonisti – sembrano anche dettare, con ritmi da ballata “dura”, il tempo stesso del racconto, scandito sulle immagini-tema continuamente riprese e variate del “rosa shocking” che esprime il desiderio di vivere e della nausea che addensa il richiamo della morte. E l’aggressivo colore – che investe di volta in volta il rossetto e il maglione di Marina, la Lacoste di Giuliano, i gerani sul terrazzo, le roselline selvatiche del corteggiamento, ed è infine riassunto dalle “impronte rosa incancellabili” invocate da Marina morente – sembra un omaggio segreto a Signorina Rosina, l’opera pizzutiana in cui il nome-titolo “indossa” a piacere le più diverse epifanie.
Aperto da un arioso riquadro dove si accampa l’eponimo quanto galeotto annuncio di locazione, Affittasi traccia con bella agilità, in ventisette rapide o rapidissime sequenze, la parabola di un amore assoluto, sognante, romantico, quasi da fiaba. La vicenda, detta in prima persona, come in Sunset Boulevard, da una voce d’oltrevita, è sobriamente affidata a tre principali attori: i due innamorati, Marina e Giuliano, e la “tata” dell’uomo, Maria, che con le sue sapide battute in palermitano (un po’ alla Camilleri) ne rappresenta la contromisura “comica”. I punti di forza del testo sono il passo incalzante, a folate (che riverbera il batticuore, la piena dei sentimenti), la concisa vivacità dei dialoghi e soprattutto gli “a parte” quasi gridati di Marina, sorta di molto siciliano monologo esteriore a regime interiettivo che ne restituisce a meraviglia le ansie, i soprassalti, le proteste. Meno invece persuade il frequente parlare di emozioni, quando sarebbe stato preferibile rappresentarle; e piuttosto incongrua risulta, per un personaggio fino a quel punto senza storia, la anamnesi di Marina che fa risalire il proprio malessere a certi trascorsi nel movimento studentesco.
Le saltuarie défaillances, addebitabili più che altro a un difetto di “mestiere”, non bastano tuttavia a pregiudicare la felicità della prova, che denuncia una vocazione sicura, un dono affabulatorio da ricondurre forse, insieme all’istinto umoristico e al viscerale commercio con la musica, ai geni dell’illustre congiunto. Assai ben condotta appare, ad esempio, la suspense che accompagna il progressivo svelarsi del passato di Giuliano, o la “moviola” che segue Marina nel dormiveglia, a esplorare la mano dell’amato. E resta nella memoria la cechoviana sparutezza della piccola degente: “Nell’ultimo letto in fondo sta disteso un pigiamino verde, dalla manica della giacca esce una specie di legnetto al quale è attaccata miracolosamente una flebo, più in alto vedo, al posto della faccia, una maschera scavata, ‘color della livida petraia’, con due fessure per gli occhi, una per la bocca e due buchi per il naso”.
Data recensione: 01/12/2008
Testata Giornalistica: L’Indice
Autore: Antonio Pane