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E se il presente della sinistra fosse già stato prefigurato nel dibattito tra intellettuali più o meno organici al Pci nei decenni del secondo dopo guerra? A rileggere, ad esempio, l’interlocuzione tra Pasolini e Volponi tutto

E se il presente della sinistra fosse già stato prefigurato nel dibattito tra intellettuali più o meno organici al Pci nei decenni del secondo dopo guerra? A rileggere, ad esempio, l’interlocuzione tra Pasolini e Volponi tutto questo sembra emergere in tutta evidenza. Chi erano i due? Intellettuali di sinistra, anche se a vario tasso di polemica e di eresia. Ma anche maniaci sentimentali, con tanto di affettività appassionata. E in certi casi straziata.
Adesso anche le loro storie personali, affidate ad un  epistolario, dunque ad una dimensione rigorosamente privata, riemergono e acquisiscono questo significato pubblico. Lo dimostra Scrivo a te come guardandomi allo specchio. Lettere a Pasolini 1954-1975( a cura di  Daniele Fioretti, Polistampa, pp. 214, euro 18) dello scrittore Paolo Volponi. È il 26 agosto 1971 e, da Ivrea, Paolo scrive “al carissimo Pier Paolo”: «Ho avuto la tua lettera e ti abbraccio subito con tutto il mio affetto. Capisco la tua solitudine e il tuo dolore». Che è accaduto? La fine di un amore. Ninetto Davoli, un ragazzo di borgata, che PPP nel 1966 aveva scelto come protagonista di Uccellacci e uccellini accanto ad un formidabile Totò in limine mortis, ha troncato la relazione con lo scrittore-regista. A Volponi( sposo e padre esemplare) PPP ha confidato atroci pene e roventi delusioni. Che dire? C’è una sofferenza vera, che fa sanguinare il cuore e trova parole di comprensione e di conforto, come è giusto che sia, da parte di un amico. E chi legge le due lettere non può sottrarsi alla commozione. Non senza avvertire, però, che “qualcosa non torna”. E quel che non torna riguarda altre questioni ed è il solito contrassegno della cultura di sinistra: la presunzione di “superiorità”. Intellettuale, ideologica e “sociale”. Nel senso che lo scrittore e il regista borghese (con ascendenze nobiliari) PPP, dall’alto della sua cultura, santificata da un ruolo pubblico “egemone” non riesce ad accettare che un borgataro, da lui lanciato nel firmamento cinematografico, gli preferisca un’altra persona, una semplice ragazza.
Ma non è qui il luogo per scrivere una sia pur breve storia della intellighenzia di sinistra nel dopoguerra e dei suoi tanti retroscena. Il gossip non ci interessa, in fondo. La raccolta di lettere curata da Daniele Fioretti, “Teaching Assistant” presso l’Università del Wisconsin-Medison, si offre, però, come spunto per orientarsi in un tessuto umano e intellettuale che aveva – forse ha ancora – assai poco a che fare con radici, istinti e sentimenti nazionalpopolari e molto, invece, con un certo snobismo elitario. Insomma, queste lettere ci portano nel cuore di una sinistra che era in molte faccende affaccendata, dai libri da pubblicare alle riviste cui collaborare, ai film da girare ai personaggi delle “terrazze” da frequentare, ma che il popolo lo vedeva o attraverso la lente della astrazione e deformazione ideologica o attraverso esperienze che avevano molto a che fare con il privato, ma assai poco con il politico. Quanto è cambiato da allora? Le sinistre convulsioni che abbiamo sotto gli occhi sono oggi indubbiamente di altra natura, visto che siamo in presenza di un intero mondo passato da una ideologia o postideologia tanto variegata quanto inconsistente.
Cosa resiste? La mentalità diremmo, a partire da una arroganza che finisce col rivelarsi patetica, accompagnata come è dalla convinzione di contenere il futuro, quando invece si continuano ad assemblare gli scampoli di trapassate utopie. Comunque, le lettere che abbiamo sotto gli occhi sono anche il documento di una amicizia, indubbiamente sincera, fatta di confidenze e di consonanze. Ma anche di qualche altra cosa. Nel senso che le 81 missive indirizzate da Volponi a PPP fra il 1954 e il ‘75 (le riposte di Pasolini sono già state pubblicate nel volume Lettere 1955-1975, a cura di Nico Naldini, Einaudi 1988), ci mostrano anche un poeta-scrittore che “cresce” e con sempre maggiore chiarezza definisce il proprio linguaggio, riflettendo su quel che ha fatto e che farà (Volponi), grazie ai suggerimenti e alle indicazioni di un intellettuale a qualche modo eletto a maestro e guida (Pasolini).
Lo scambio epistolare data dall’agosto ’54. Quattro anni prima, l’urbinate Paolo Volponi ha conosciuto Adriano Olivetti, una singolare figura di imprenditore, a mezza strada tra il riformatore illuminato e il visionario solidarista, che promulgative ricerche sociali e iniziative culturali, come il movimento Comunità (e la casa editrice e la rivista omonime). Olivetti ama circondarsi di intellettuali, che dovrebbero essere altrettanti mattoncini per la cittadella di una utopia comunitaria e libertaria in versione industriale: tra quelli Ferrarotti, Pampaloni, Soavi, Fortini, Ottieri, Giudici. Ma anche Volponi, assunto prima presso un ente di assistenza sociale, per cui compie inchieste nel Mezzogiorno, poi chiamato ad Ivrea a rivestire l’incarico di direttore dei servizi sociali, è della partita. Con tutte le perplessità dell’uomo di sinistra che si chiede: ma per chi lavoro? Per il padrone o per la classe operaia? Nonché con i tic di chi prova un certo ribrezzo per l’ambiente avveniristico in cui si trova («Intanto lavoro dentro un ufficio di vetro, tra piante insipide che sembrano vivere di corrente elettrica: tutta la stanza vibra tesa, percorsa da sottili e insistenti messaggi, da colori e nichel come una anticamera della sedia elettrica»).
Comunque, al momento, tanto di cappello ad Adriano Olivetti e alle sue speranze! Soltanto nel ’75  - Adriano era morto nel 1960 – l’ormai disincantato Volponi scriverà: «Io vivevo una “cieca” stagione di fiducia, negli anni ’57-60, lavorando tutto il giorno per far andare bene la fabbrica nella quale credevo come fonte di benessere, di energia civile, di insegnamenti per la pubblica amministrazione, per l’università, per i comuni, che si avviassero ad una revisione delle proprie strutture, sistemi e risultati proprio per il benessere della società. Ho cominciato dopo ad intravedere...come ogni suo gesto fosse proprio per la sua natura oltre che per la sua meccanicità contrario a ogni benessere sociale». Nel frattempo, dopo la morte di Olivetti l’azienda ha abbandonato il piano di investimenti e l’apertura sociale e al territorio che avevano caratterizzato la sua epoca. Tuttavia Volponi – misteri del marxismo all’italiana – non solo ha continuato a far parte dell’organigramma aziendale, ma nel ‘72  è passato alla Fiat come esperto dei rapporti tra fabbrica e realtà urbana (di nuove contraddizioni, con contorno di complessi di colpa, auto assoluzioni e ricerche di “complicità”, al limite della spudoratezza. Si legge in una lettera a PPP del 12 aprile 1972: «Ho accettato di collaborare con la Fiat e ora sono già dentro, in un ufficio, in una solitudine e in una posizione che è inutile descriverti: tu li vedi e li temi con me»). Salvo dimettersi nel ’75 (intanto era diventato segretario della Fondazione Agnelli), dopo la pubblica dichiarazione di voto per il Pci, nelle cui liste sarebbe stato eletto nel 1983. Per poi trasmigrare nel gruppo parlamentare di Rifondazione nel ‘91, all’atto di fondazione del Pds.
Ma torniamo nel 1956 delle grandi, intatte speranze, e alle lettere che il povero Paolo dalla gelida, modernissima, efficientissima Ivrea , indirizzava a Pier Paolo, che è a Roma dal ‘49, approdato lì da Casarsa (Friuli), dopo essere stato denunciato dai carabinieri per corruzione di minori, aver perso il posto di insegnante ed essere stato espulso dall’ultra-omofobo Pci. Comunque, il “disorganico” PPP ha un nome che pesa nell’intellighenzia, visto il successo della raccolta poetica La meglio gioventù (in dialetto friulano) e del romanzo Ragazzi di vita (in dialetto romanesco).
Il povero Paolo, da parte sua, soffre di nostalgia. Per lui, il duro lavoro d’ufficio. Ma anche le speranze letterarie. E scrive a Pier Paolo, il quale risponde. Suggerisce e, in qualche misura suggestiona. Sta rileggendo De Sanctis e Gramsci (forse anche la prima Voce) e sempre più si convince che la letteratura deve essere nazionale e popolare. E che deve educare la coscienza civile degli italiani. Al bando, dunque, ermetici e rondisti, tuona dalle colonne della rivista Officina( un nome che in qualche modo sa tanto di “fascismo rosso...”). Niente criptici epigrammi, ma poemetti( e va riscoperto anche Pascoli) dalla solida trama narrativa. E Volponi segue ed esegue. C’è, però, quella faccenda della cultura industriale a scavare lentamente un solco tra PPP e Paolo. Il quale, nel grande rifiuto del poeta, arcaico e premoderno, sempre più vede un atteggiamento preconcetto. Però, non lo attacca direttamente, dicendo che è fuori dalla storia e dalla geografia della modernità, nonché pieno di pregiudizi cristiani. E preferisce prendersela, nel ’72, con gli ipercritici del  mondo industriale, dunque, con chi non vuol guardare alle nuove problematiche: ma il riferimento a Pasolini lì è chiaro.
Sinistra contro sinistra, insomma, già nei primi anni Settanta. Il tutto affidandosi alle opere letterarie (e nel caso di Pasolini anche a quelle cinematografiche: il suo primo film Accattone è del 1961) come a dei manifesti di estetica e di pedagogia politica? Il Volponi, “olivettiano” e democratico-libertario, almeno nelle aspirazioni, che nel 1965 con La macchina mondiale ci propone un contadino-filosofo-dinamitardo o quello post Fiat, e senatore del Pci, che nel 1989 con Le mosche del capitale smaschera, con guizzi autobiografici, i sogni neo illuministi degli imprenditori progressisti( ma pur sempre padroni) e dei loro cortigiani? Il Pasolini, dissacratore e cristiano, che cerca e non trova il suo comunismo, il suo proletariato e la su Italia, e confusamente vaga da Gesù a Edipo, dalle lucciole a Salò-Sodoma, dal fascismo Dc a Ezra Pound e ai giovani missini (interlocutori?), fino a sprofondare in una morte atroce, inseguita da intellettuale-padroncino  tra i ragazzi barbari delle periferie? «Scrivo a te come guardandomi allo specchio», scrive Volponi a Pasolini il 12 aprile 1972. Ma gli specchi riflettono anche quello che ci si vuol vedere. E borgesianamente, l’ambiguità moltiplicata all’infinito.
Data recensione: 06/03/2009
Testata Giornalistica: Il Secolo d’Italia
Autore: Mario Bernardi Guardi