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Vittoria Perrone Compagni, docente di Storia della Filosofia del Rinascimento presso l’Università degli Studi di Firenze, ci offre in questo volume una traduzione italiana, con testo latino a fronte, del De triplici ratione

Vittoria Perrone Compagni, docente di Storia della Filosofia del Rinascimento presso l’Università degli Studi di Firenze, ci offre in questo volume una traduzione italiana, con testo latino a fronte, del De triplici ratione cognoscendi Deum di Heinrich Cornelius Agrippa von Nettesheim (1486-1535), una delle figure più poliedriche ed eminenti della complessa e sincretistica tradizione occultistica magico-ermetica del Rinascimento. Il testo latino dell’opera è costituito dalla editio princeps, comparata dalla studiosa, in un attento lavoro critico-filologico, con la seconda edizione e con quella contenuta nel ms. 16625 della Bibliothèque Nationale de France. In un ampio saggio introduttivo, Ermetismo e cristianesimo nei primi scritti di Cornelio Agrippa (pp. 5-77), la Perrone Compagni ricostruisce il peculiare contesto storicoculturale in cui furono redatte le opere di Agrippa, con particolare attenzione al De homine (1515-1516) e al De triplici ratione cognoscendi Deum (1516), e si sofferma su taluni nodi cruciali e su alcune tematiche ricorrenti del pensiero dell’occultista tedesco. Una particolare attenzione è dedicata dalla Perrone Compagni alla riflessione di Agrippa sulla magia, la quale costituisce un tema fondamentale delle opere composte da quest’ultimo. Anche la rielaborazione della nozione di magia si inserisce all’interno di una nuova prospettiva gnoseologica conseguente alla necessità di rinnovare e, per così dire, vendicare l’abusato termine che comunemente presupponeva una prassi slegata da una solida base teorica. Questa tematica è affrontata nella prima stesura del De occulta philosophia (1510), la quale precede di qualche anno il De triplici ratione cognoscendi Deum. Richiamandosi alle posizioni di autori quali Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola, Agrippa presenta la magia come sublimis sacraque facultas, assumendola come il compimento della philosophia. Assegnandole questa posizione privilegiata, egli si propone di ricostruire lo statuto epistemologico della magia e di mostrare la sua legittimità. A tal fine egli ricorre alla consueta distinzione tra magia vera e magia falsa che, a sua volta, si interseca con la distinzione tra filosofia vera e filosofia falsa. L’elemento che distingue nettamente tra loro le due forme di magia è individuato nella intentio del mago, nel suo orientamento spirituale che determina un uso lecito e spiritualmente proficuo della magia. In questa direzione, il fondamento della praxis magica è individuato da Agrippa nella fides. Come Giovanni Pico della Mirandola e Johannes Reuchlin, Agrippa ritiene che la legittimazione di ogni pratica magica, quale azione volta a modificare la realtà naturale, vada individuata nell’illuminazione divina. La ricerca di una fondazione gnoseologica della magia rimanda anche alla stretta relazione intercorrente tra la teologia, vista come presupposto teoricospeculativo della magia, e la sua applicazione operativa, propria di una magia religiosa. Secondo Agrippa, la magia costituisce una disciplina che deve essere riservata al vero filosofo, il quale cerca il fondamento della conoscenza razionale in Dio. Animato da un furor amoroso nel suo percorso di progressivo avvicinamento a Dio, il filosofo può anche decidere di rivolgersi al mondo e operarvi azioni prodigiose non come strumento di Dio, ma come uomo deificato, trasfigurato dall’assimilazione alla divinità. Nella riflessione di Agrippa sullo statuto della magia svolge un ruolo fondamentale la fruizione di fonti ermetiche. La profonda incidenza dell’ermetismo nel pensiero agrippiano si nota già nella prolusione all’esposizione del Pimander, in cui Agrippa si presenta come detentore della sacrale dottrina ermetica. Con la sapienza relativa alla rigenerazione spirituale, egli, proprio come il Trismegisto, assurge a guida di coloro che ascoltano e recepiscono il messaggio ermetico. Alla dimensione estatica del Pimander in cui la sapienza è rivelata dalla Mens, Agrippa preferisce i processi razionali con cui ogni uomo può accostarsi alla verità, innalzando così la scienza a sapienza. In questo modo, l’illuminazione della Mens che ha ricevuto Ermete è affidata all’intrinseca capacità della mente umana di ascendere al divino e di promuovere la deificatio hominis. Il cammino dell’uomo non è però soltanto speculativo, ma anche operativo: «Il Pimandro di Mercurio ci insegna come possiamo acquistare una mente salda e possente, mediante la quale sia conosciamo sia operiamo cose mirabili senza ingannarci» (p. 27). In Agrippa, secondo un rilievo ermeneutico della prisca theologia, il Pimandro-Mens corrisponde al Cristo. Egli, inoltre, identificava Ermete con il biblico Enoch, allontanandosi in tal modo sia da Marsilio Ficino, il quale considerava Ermete un pagano anticipatore della rivelazione cristiana, sia da Ludovico Lazzarelli, il quale nel Crater Hermetis lo considerava un sapiente egiziano. Anche nel Dialogus de homine Agrippa prospetta temi ermetici, insistendo ad esempio sul tema dell’homo imago Dei e riprendendo in qualche misura il tema della deificatio hominis. In questa epistola la conoscenza è presentata come un ritorno alla propria interiorità, quale movimento immanente all’autocoscienza, fondato sul precetto delfico del nosce te ipsum. Questo ritorno in sé si presenta come apertura alla conoscenza del tutto che si trova riflesso nell’uomo assunto secondo la stretta corrispondenza tra miscrocosmo e macrocosmo. L’uomo esaltato da Agrippa è una totalità inscindibile di anima e corpo e la sua superiorità risiede proprio in questa dualità ontologica. Nella rivalutazione positiva della corporeità Agrippa si richiama all’Asclepius, preferendo la visione ottimistica di questo testo a quella pessimistica del Pimander. Secondo quest’ultimo testo, infatti, la discesa dell’anima nell’involucro materiale costituito dal corpo è strettamente legata alla caduta e alla colpa; nell’Asclepius, invece, l’essenza di questa incarnazione risiede nel prendersi cura anche delle cose terrene e il corpo è presentato come un dono e una protezione per l’anima: «Dio quindi ha formato l’uomo della natura dell’anima e del corpo, cioè dell’eterna e della mortale, affinché l’essere vivente così conformato possa adempiere alla sua duplice origine, cioè ammirare e pregare le cose celesti ed eterne e prendersi cura e governare le cose terrene » (p. 46). La dignità dell’uomo diviene un’esaltazione della sua divinità e Agrippa si spinge anche oltre affermando un peculiare rapporto speculare tra Dio e l’uomo: «L’uomo è immagine del Dio invisibile, mentre Dio è l’immagine dell’uomo e a lui si è assimilato» (p. 150). Dopo aver ricostruito alcune coordinate basilari del pensiero agrippiano espresso nelle opere composte tra il 1510 e il 1515 la Perrone Compagni giunge infine ad esaminare i contenuti e i caratteri salienti del De triplici ratione cognoscendi Deum. Con tale opera Agrippa, costretto a rifugiarsi alla corte del marchese di Monferrato, Guglielmo IX il Paleologo, approfondisce la sua riflessione sulle condizioni di possibilità e sulle modalità procedurali della conoscenza dell’uomo e di Dio. La Perrone Compagni mostra che le riflessioni contenute in questo trattato non si contrappongono alle precedenti posizioni di Agrippa, bensì sono in continuità con esse, restituendo un percorso intellettuale che, nella sua evoluzione, si presenta essenzialmente come lineare e omogeneo. Secondo la studiosa, l’elemento che costituisce il trait d’union del complesso pensiero dell’autore è l’ermetismo, nella stratificazione dei suoi aspetti filosofici e religiosi. In tale evoluzione non mancano però risvolti e prospettive innovative. Ad esempio, al nosce te ipsum, che era centrale nel De homine, Agrippa nel De triplici ratione cognoscendi Deum preferisce un modello gnoseologico incentrato sulla conoscenza di Dio. La conoscenza di sé, che non si contrappone alla conoscenza di Dio, è adesso considerata come una preparazione all’ascesa. Come nota Agrippa, Te prius ut noscas, prudens hortatur et addit noscere tu possis qua ratione Deum (p. 86). Nel De triplici ratione cognoscendi Deum, le tre vie descritte da Agrippa, attraverso le quali l’uomo può conoscere Dio, sono presentate non soltanto come tre differenti percorsi gnoseologici concatenati secondo un ordine graduale, ma anche come tre differenti fasi storiche che hanno segnato il connaturale anelito dell’uomo alla divinità. La conoscenza di Dio – il quale è denominato da Agrippa anche con espressioni tratte dalla tradizione ermetica, come “Signore dell’eternità”, “principio, mezzo, fine e rinnovamento di tutte le cose” – costituisce per l’uomo una necessità e un dovere. L’abbandono della ricerca di Dio, infatti, degrada l’uomo e lo rende vittima delle passioni più turpi, esponendolo alle aggressioni degli spiriti immondi o ultores scelerum. Da qui il bisogno di accostarsi ai tre libri della cono scenza di Dio, indicati da Agrippa nel “contemplare le creature”, nell’“ascoltare gli angeli” e nel “credere nel Figlio di Dio e dargli ascolto”: Clamat ad nos Deus de coelo, de «monte sancto suo»: contemplamini creaturas, audite angelos, «auscultate filium meum», ut pii et iusti sitis. Ecce, hi sunt tres libri cognitionis Dei, quos misit Deus in hunc mundum hominibus (p. 103). Il primo libro consiste nella filosofia dei Gentili, i quali hanno creduto di poter conoscere Dio soltanto attraverso la contemplazione delle sue creature. Il secondo libro rinvia alla condizione degli Ebrei, i quali hanno ricevuto il libro della Legge e hanno elevato la loro conoscenza alle creature angeliche. Ai primi due libri segue il terzo, il Vangelo, che finalmente permette di avere una conoscenza di Dio mediata dalle parole del Figlio. Nel primo libro, il limite della conoscenza di Dio è dato dal fatto che quest’ultimo, nella sua trascendenza, supera qualsiasi intelletto. Con riferimento a istanze del pensiero ermetico, Agrippa mostra come Dio, nella sua “assoluta e solitaria separazione dalle cose”, nel suo “ritrarsi in sé stesso”, “nel profondissimo recesso della sua divinità”, appaia, nella sua essenza, fondamentalmente insondabile e inafferrabile, in un ottica in cui la conoscenza prende coscienza dei propri limiti strutturali al cospetto della divinità.3 In questo primo libro, dunque, la conoscenza di Dio avviene in forma indiretta e mediata, tramite “le potenze partecipate che emanano da Lui negli enti creati”, cercando di cogliere il divino nelle creature. Nel secondo libro, invece, la conoscenza di Dio avviene attraverso lo studio della sua parola, conservata e custodita nella Legge rivelata. Dio, infatti, ha dato agli Ebrei il Libro della Legge e ai Sapienti il Libro delle Promesse. Richiamandosi a Giovanni Pico della Mirandola, Agrippa afferma che Dio, sul Sinai, diede a Mosè la Legge scritta che doveva essere divulgata e l’esposizione della Legge che, invece, doveva essere tramandata oralmente soltanto a pochi sapienti. Tale esposizione iniziatica della Legge è chiamata la Scienza delle Promesse o Cabala, e contiene “la conoscenza di tutte le cose divine e umane secondo una lettura allegorica della legge mosaica”. La Cabala permette di pervenire alla conoscenza di Dio e degli angeli attraverso lo studio dei Nomi dell’uno e degli altri. L’invocazione di questi Nomi permette l’innalzamento dell’uomo attraverso i gradini che conducono “alle luci del Padre eterno”. Quale sapienza esoterica, la Cabala permette anche di cogliere i significati nascosti del testo biblico, attraverso tecniche combinatorie quali la gematria. Sulla scorta di Pico, Agrippa sostiene che i libri cabalistici – che anch’egli, sulle orme del Mirandolano, legge e rimodula in un’ottica cristiana – contengono “l’ineffabile teologia della divinità supersostanziale”, “l’esatta metafisica delle forme intelligibili e angeliche”, “la saldissima filosofia del mondo corporeo e degli enti naturali”. In tale direzione, la Cabala è assunta nel suo supremo valore sacrale e non va in alcun modo confusa con le pratiche di coloro i quali operano azioni mirabili grazie a dei patti stretti con i demoni. Con il Vangelo, che costituisce il terzo libro, l’uomo può conoscere Dio in un modo più diretto, con una conoscenza che si realizza grazie all’illuminazione dell’intelletto da parte della Mente divina. Questo grado di conoscenza è costituito dalla teologia. Il processo graduale della conoscenza di Dio si presenta come una progressiva purificazione dell’anima dai vincoli e dalle pulsioni del corpo, nella direzione di una riconquista della propria natura puramente spirituale, assimilabile a quella degli angeli. Al riguardo, in un passo del trattato in cui riecheggia il motivo pichiano della metamorfosi dell’uomo in angelo (descritta nell’Oratio con il ricorso alle figure di Enoch e Metatron), Agrippa scrive: «Così la nostra anima, racchiusa in una carne soggetta a corruzione e spinta in basso dal soverchiante legame con la carne, senza frutto si affatica sulle cose divine se non oltrepassa la via della carne e non riconquista la sua natura originaria, ritornando mente pura, quasi identica all’angelo» (p. 143). Si comprende così come il cristianesimo, assunto e contemplato da Agrippa nella sua essenza ermetica, rappresenti l’orizzonte in cui si realizza compiutamente la conoscenza di Dio. Il De triplici ratione cognoscendi Deum rappresenta un importante documento dell’ermetismo cristiano rinascimentale. La Perrone Compagni, attraverso un’analisi che disvela le trame del pensiero agrippiano, lascia emergere da esso il nucleo speculativo dell’umanesimo ermetico-cristiano: O «magnum miraculum homo», praecipue autem homo christianus (p. 146).
Data recensione: 01/01/2007
Testata Giornalistica: Schede Medievali
Autore: Flavia Buzzetta